Il fine vita [di Pierluigi Vignola]
Il “problema del fine vita” e quindi il percorso della “eutanasia”, accidentato e contestato, ha attraversato in questi anni l’Europa e l’ha spaccata in due tracciando una linea tra Paesi che ne hanno riconosciuto la validità e Paesi che hanno continuato a bandirla come omicidio. È stata l’Olanda, il primo aprile del 2002, a legalizzare – primo Paese al mondo – l’eutanasia diretta, seguita a pochi mesi di distanza proprio dal Belgio che, nel settembre dello stesso anno, autorizzò dopo un acceso dibattito il suicidio assistito e che ha appena esteso la legge anche ai minori. In altri Paesi, ciascun malato può rifiutare le cure o comunque l’accanimento terapeutico, mentre in altre realtà sono condannate eutanasia passiva e attiva ma è consentito ad un comitato etico di interrompere le cure in “casi disperati”. Tollerata anche in Germania e in Austria su richiesta del paziente, la “buona morte” è infine ancora vietata e considerata un reato in Italia. Ecco allora che mai come in questi anni il dibattito sulle questioni attinenti il fine-vita è stato così vivo ed intenso. Ci sono alcuni casi drammatici balzati agli onori della cronaca ad esempio in Italia, come quello di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, che hanno portato il tema all’attenzione di molti e ci si interroga anche sull’opportunità di intervenire per via legislativa su un tema di tale delicatezza. Le opinioni appaiono schematicamente contrapposte, ma se si va a guardare in termini più sottili le ragioni che possono fondare eventuali differenze ci si accorge che il panorama è molto più sfaccettato e complesso di come lo si vorrebbe dipingere. Questo problema non riguarda solo le problematiche di fine vita, ma anche – ad esempio – la sempre maggiore diffusione di quello che viene impropriamente chiamato aborto terapeutico, in cui una diagnosi prenatale di malattia o malformazione del nascituro diviene facile premessa alla sua soppressione “per il suo bene”, dietro l’alibi che una vita menomata non meriterebbe di essere vissuta. Lo stesso sentire diffuso si affaccia in modo ancora più evidente sull’altro capo della vita, quando le persone imboccano l’ultimo tratto di strada che li porterà a spegnersi, per lo più in condizioni di salute gravemente problematiche, a cui si può aggiungere la sofferenza per la solitudine, il fatto di sentirsi “di peso” per le persone che ci sono care, un atteggiamento freddo e spersonalizzante di molte strutture sanitarie. Accompagnare le persone in questo tratto di strada è indubbiamente difficile e, nella mente di chi vive in modo particolarmente acuto tale difficoltà, può anche prendere forma l’idea che la morte della persona cara potrebbe essere per lei (o piuttosto per noi?) una liberazione. Un conto, però, è rendersi conto che prendono forma pensieri di questo tipo, un conto è sentenziare, come spesso avviene, che la vita di una persona che vive un’esperienza di menomazione, handicap grave (come ad esempio di chi si trova in stato vegetativo) o sofferenza non è degna di essere vissuta, non merita di essere vissuta o – peggio ancora – non è più la vita di una persona. Chi si occupa di bioetica da qualche tempo e conosce gli argomenti e le strategie di quanti partecipano da anni al dibattito sulle questioni di fine vita sa che, ad esempio, in genere le varie forme di Testamento biologico rappresentano una strategia di “avvicinamento” alla legalizzazione dell’eutanasia ad opera di gruppi e movimenti favorevoli alla cosiddetta dolce morte. Ecco allora la necessità di riflettere sull’esperienza della morte in se stessa, prendendola sul serio e senza “censure interiori”, e tutto ciò ci aiuta a rischiarare in modo più profondo le dimensioni di splendore dell’esistenza della persona umana. In primo luogo, bisognerà tener presente che la definizione della morte, anche solo a livello biologico, ci “costringe” a rendere più raffinata la nostra idea della vita. Si tende infatti a definire la morte come perdita totale e irreversibile dell’unitarietà funzionale dell’organismo ed è in rapporto a tale definizione che si individuano i criteri diagnostici per l’accertamento di morte. La morte, in ogni caso, può essere intesa anche – e soprattutto – come “momento supremo” in cui si trae il bilancio di un’esistenza e si giunge al compimento di quello che può essere il suo significato. Tale modo di intendere la morte può essere vissuto sia in una prospettiva religiosa che in termini laici, a seconda di quello che per ciascuno di noi è il criterio in base al quale si possono trarre i propri bilanci: in rapporto ai valori umani per i quali si ritiene che la vita abbia un senso e un valore e/o in rapporto al modo in cui si confronta la propria esistenza con le esigenze dell’amore di Dio. In entrambi i casi possiamo ripercorrere il triplice consiglio che S. Ignazio di Loyola dava a colui che dovesse assumere una decisione importante, cioè quello di porsi tre domande: “Che cosa consiglieresti al tuo migliore amico? Che cosa vorresti aver fatto se ti trovassi in punto di morte? Che cosa vorresti aver fatto se ti trovassi al cospetto del Tribunale di Dio?“. Ci sembra un interessante “esperimento mentale” che ci aiuta a vedere il rapporto tra l’evento della morte ed il significato della vita, in una pluralità di prospettive. * Corritalia.de |