Nelle periferie non luoghi la politica dimentica la gente [di Goffredo Buccini]
Se pensano di partire dai rammendi di un bravo architetto per trasformare la città dominata dalla rendita e dall’emarginazione sociale nella città finalizzata al benessere di tutti i suoi abitanti, allora il cammino sarà tortuoso e porterà indietro. Se vogliono altro, un architetto può bastare. Renzo Piano li chiama «rammendi». E accidenti se c’è da rammendare, nelle banlieue di Milano e Roma. «Vede, ci siamo occupati troppo a lungo delle città senza preoccuparci della gente, questo è il risultato», sospira Mario Abis, il sociologo del gruppo G124 inventato da Piano per riqualificare le periferie italiane: «La politica non ha mai ragionato sul Paese. Ora noi partiremmo dai… rammendi di un grande architetto per arrivare a una tessitura delle città». Professore, a Milano e Roma gli ultimi si massacrano con i penultimi, nodi e conflitti vengono al pettine… «Sì. È stato tutto a lungo in ebollizione, ora tutto scoppia, in strutture sociali complesse e con diversi tipi di povertà». Cosa sta cambiando?«Viene meno il proletariato urbano. Ci sono forme multietniche, diverse tipologie di abitanti delle periferie».E c’è la crisi, ovviamente «Con la disoccupazione e una esplosione planetaria delle diseguaglianze. Intanto cambiano anche le città, diventano grandi aree metropolitane. Milano ha un milione e duecentomila residenti ma un’area metropolitana di cinque milioni di persone. Si arriva a territori senza identità, non luoghi: è la periferizzazione delle città che s’accompagna a isolamento, enclave chiuse, competizione tra le molte etnie». Dopo tre giorni di tafferugli a Tor Sapienza, s’è deciso di trasferire i migranti ospiti dal centro assediato. Un cedimento repentino: non rischia di produrre emulazione? «Sì, c’è il pericolo di una spirale di imitazione. Pensi alle banlieue francesi. È molto possibile che questo meccanismo si riproduca, magari in altri punti della periferia romana, o napoletana o palermitana». A Milano l’impressione che lo Stato abdichi di fronte al racket delle occupazioni è fortissima in queste ore… «La mancanza dello Stato e della pubblica amministrazione è totale, direi. Come la mancanza di piani strategici e cultura della prevenzione». Perché non si riesce a fare un piano regolatore decente? «Perché il territorio è visto come una situazione fisica, asettica. Lei allo Zen di Palermo può portare anche il migliore architetto, ma se non c’è relazione tra tessuto urbano e sviluppo sociale, non ne esce» Pensando alla gente, eh? «Appunto, alla gente» A Tor Sapienza come altrove, è palese che un brutto ambiente produca gente feroce «Quando dico ambiente sostenibile questo intendo. Proprio sull’estetica delle periferie lavoriamo con Piano. Etica e estetica vanno assieme» Come dice monsignor Bregantini, del resto «Ora l’occasione sono le aree metropolitane. Cosa ci mettiamo dentro? Se ne facciamo una sommatoria di paesi, saranno l’incubatore del conflitto». I francesi questo problema se lo sono posto nel 2003, con un piano nazionale. E Marsiglia è diventata un modello. Perché noi non ci riusciamo? «Perché siamo burocratici, macchinosi e lenti. Le città si sviluppano a un passo che la nostra micidiale burocrazia non regge. Questo si può superare nelle piccole comunità». E non serve un progetto nazionale? «Certo. Ma il senso di questo lavoro di Piano è produrre proprio idee e spunti che portino a una visione nazionale». Ci vorrebbe una politica «Ci vorrebbe. E le aree metropolitane sono l’occasione per creare un ceto politico aperto. Queste cose non si risolvono a livello centrale. Del resto ci sono esperienze come Udine o Lecce dove le cose funzionano e bene». Già, ma Milano, Roma o Napoli sono diverse «La chiave è la scomposizione delle aree» Cioè facciamo di Roma tante piccole Udine? «Non me la faccia dire così. Però, sì, è un discorso di sotto-insiemi collegati da un filo rosso. Ancora una volta, è una questione di cultura politica». Cosa le fa pensare che infine ce l’avremo? «È una speranza. E anche un calcolo. La grande competizione internazionale si giocherà tra le città, non tra i Paesi. E la politica è tenuta a occuparsene, a guardare alle città con occhi diversi. Altrimenti saremo fuori dalla competizione economica internazionale». All’aeroporto di Catania, da mesi, un cartello affisso dalla Questura sconsiglia ai turisti i quartieri periferici ad alto degrado: il primo della lista è Librino. Proprio a Librino, il gruppo di Renzo Piano ha individuato il «Campo San Teodoro liberato» e la vicina scuola Brancati come punto di ricucitura del tessuto urbano. * Corriere della Sera, 14 novembre 2014
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