Elesta non abita più in Sardegna [di Antonello Farris]
Nel 1984 ho lasciato il mio paese. Avevo vent’anni. Il giorno della partenza ho sentito una gran gioia perché andavo a studiare a Milano, ma anche un po’ di dispiacere perché lasciavo tutti gli amici più cari, e i miei. Sono passati trent’anni e ho deciso di tornarci. Dopo gli studi ero andato ad abitare a Londra; oramai ci vivo da venticinque anni, e qui mi sono sposato e ho fatto tre figli. Lavoro nella city, in una multinazionale della finanza, ma ora questa è fallita, così… nel giro di poche settimane. Il mio paese si trova in Sardegna, lontano dalla costa, nel cuore dell’isola, e si chiama Elesta. Lo ricordo come fosse oggi: le case erano basse e chiare, i tetti con le tegole rosse, i viottoli lastricati e silenziosi, la piazzetta centrale con la chiesa, il bar, i giardinetti. Ci giocavo da ragazzino, tutti i pomeriggi dopo la scuola, e in gruppo andavamo alla bottega di alimentari lì nei pressi, compravamo le liquirizie e le castagne secche. Nei giardinetti giocavamo con le biglie di vetro o con le figurine dei calciatori che attaccavamo all’album. Si stava bene, le auto in paese erano poche, dieci o quindici in tutto. I miei non avevano la macchina, mio padre usava la bicicletta mentre mia madre camminava sempre a piedi. Mamma accudiva alle faccende di casa, babbo lavorava in municipio, nell’ufficio dei controlli edili. Io ho studiato in paese sino alla maturità, ero bravo in tutto, avevo la media dell’otto. Dopo la maturità venne a casa un funzionario del ministero, mi era stata assegnata una borsa di studio e avrei potuto trasferirmi alla Statale di Milano, spesato di tutto. I miei acconsentirono. Mamma, mentre diceva sì, piangeva, babbo si capiva che era emozionato e orgoglioso ma anch’io avevo gli occhi lucidi… Alla Statale ho seguito tutto il ciclo di studi e mi sono laureato con il massimo dei voti in finanza internazionale. Già prima di finire sapevo dove sarei andato: una banca d’affari londinese si era prenotata per la mia assunzione. Sono volato a Londra, era il 1984 ed è incominciata la mia bella avventura. Negli anni seguenti tutta la mia famiglia si era trasferita a Cagliari per far fare l’università ai miei fratelli. Babbo ha preso a viaggiare tutti i giorni per Elesta sino a quando è riuscito a farsi trasferire anche lui in città, negli uffici del catasto, in “prestito” lì sino all’andata in pensione. In tutti questi anni sono rientrato da Londra solo qualche volta e per brevi periodi. A Elesta non sono più ritornato e per lei sento una forte nostalgia. So che lì sono rimasti due miei zii e i miei cugini. Loro hanno preferito fare i contadini e amministrare le terre. Ora ho cinquant’anni e una grande esperienza nella finanza ma, come dicevo, la banca è fallita e da un giorno all’altro mi sono ritrovato a spasso, e per fortuna che di soldi ne ho fatti veramente tanti! A Londra è così, non c’è da meravigliarsi, tutto cambia in fretta e del resto per uno come me non mancano nuove occasioni di lavoro… Ma stavolta ho deciso di prendermi una lunga vacanza. Andrò a stare a Elesta per qualche mese, voglio riappropriarmi di uno stile di vita meno stressante. Voglio avere tempo per pensare al mio futuro, perché non è escluso che mi fermi per sempre in paese per fare qualche nuova attività a contatto con la campagna. La finanza è bella ma dopo tanti anni mi andrebbe di cambiare. Ora sono sul volo di linea che mi porta a Cagliari. So che ad aspettarmi c’è mia sorella, mi accompagnerà a Elesta e mi farà compagnia per qualche giorno, staremo nella vecchia casa dove ho trascorso i miei primi vent’anni di vita. La incontro in aeroporto, Rosetta mi sorride, ci abbracciamo e lei mi ricorda che sono due anni che non ci vediamo, da quando sono scomparsi i genitori: prima babbo per un infarto, e tre mesi dopo mamma che soffriva di angina pectoris. Partiamo, la giornata è luminosa, calma, posso godermi questo viaggio in auto e parlare distesamente. Rosetta ha una guida rilassata che mi piace. Osservo il suo profilo e le chiedo del suo lavoro: lei è assistente universitaria, è biologa e sta seguendo una ricerca sulle cellule staminali. Me ne parla, anche se capisco poco di queste cose, ma la vedo entusiasta e intuisco che è assai coinvolta e che ci crede molto. Poi è lei che chiede di me, dei ragazzi che stanno a Londra e di Elizabeth che per il momento non ha potuto seguirmi. Chiede del fallimento della banca, della mia attuale condizione. La tranquillizzo, le spiego che intanto voglio immergermi nei ritmi di vita del paese, che voglio rincontrare i cugini e gli amici lasciati trent’anni fa e riflettere sul mio futuro. Lei mi ascolta e tace, non si esprime, è come bloccata. Chiedo spiegazione e lei si limita a dirmi di aspettare qualche minuto. Ecco, siamo sui tornanti, saliamo ancora sino al passo e quindi iniziamo la discesa lungo il costone della vallata. Lo spettacolo che mi si presenta mi fa accapponare la pelle: la campagna è invasa dalle pale eoliche. Decine e decine di pale. Cerco di contarle ma non ci riesco e Rosetta mi dice che sono novanta. Un ronzio, sordo ma continuo sovrasta tutto lo spazio… Sono sconcertato, non parlo e sento come una mano che mi strizza il cuore. Nella vallata non ci sono più gli orti, anche i nostri cugini hanno ceduto i terreni e vivono dall’energia prodotta. Sono turbato, spiazzato. E’ vero, l’energia pulita, ci ho sempre creduto, è tutto giusto… Ma la mia campagna verde, quegli orti, quelle vigne… che desolazione! Provo imbarazzo, non avrei immaginato questa reazione davanti a qualcosa in cui ho sempre creduto. E invece debbo ammettere che ho un rifiuto. Rosetta mi dice che tra poco saremo in paese, solo pochi tornanti. E, infatti, ecco le case che mi appaiono all’improvviso. Ma i vecchi tetti con le tegole rosse non ci sono più, al loro posto grigi e freddi pannelli solari. Visto da quassù il paese sembra ora un mostruoso impianto fotovoltaico. Rosetta si gira, mi guarda, capisce cosa sto provando e, quasi a scusarsi, mi dice che ora Elesta è più che autosufficiente e che anzi cede energia pulita ad altri paesi. Aggiunge che tutto ciò non è certo romantico ma che si tratta del prezzo da pagare per la modernità. Io taccio, non ho parole. Ora entriamo in paese, Rosetta guida piano perché possa notare le nuove costruzioni ricoperte dai pannelli e la selva di antenne paraboliche che spunta fuori da ogni edificio. Il viale che penetrava l’abitato, e che offriva lo spettacolo delle case bianche con le finestrelle colorate di azzurro e con i camini fumanti, non è più lo stesso. Per un attimo mi si annebbia la vista. Quindi arriviamo alla piazzetta centrale e qui Rosetta accosta l’auto. Scendo per rivedere il posto dei miei giochi. Il giardinetto è stato eliminato; ora c’è uno spiazzo piastrellato con al centro una sorta di labirinto di muretti marmorei deturpati da disegni incomprensibili, quelli che fanno i ragazzi con le bombolette spray. Più oltre ci sono alcuni scivoli in pessime condizioni dove alcuni ragazzini stanno giocando con lo skateboard. Poco distante c’è ancora il vecchio negozio di alimentari dove compravamo le liquirizie. Ci entro e mi ritrovo in un mini-market illuminato da luci al neon, al soffitto numerose casse acustiche dalle quali si diffonde una musica assordante e insopportabile. Quel piccolo paradiso della gola è anche lui scomparso. Rosetta mi sta al fianco, è imbarazzata ma ne ha ben ragione perché io sento di essere paonazzo. Esco, non parliamo, risaliamo in auto per raggiungere a duecento metri la nostra vecchia casa. E’ l’unica che sia rimasta intatta e nel rivederla mi commuovo. Poi nell’ingresso mi giro verso il paese e davanti agli occhi mi si presenta uno spettacolo che nell’insieme non può che destare sconcerto: pale eoliche, pannelli solari, antenne paraboliche. Tutto assieme, in una sorta di orgia della tecnologia. Sono in preda allo sconforto… E’ mezzogiorno e dico a Rosetta che ho bisogno di allontanarmi. Le chiedo se ci sia qualche posto fuori paese dove poter mangiare qualcosa. Lei mi porta oltre la valle, in un agriturismo immerso in un oliveto. Ci sediamo a tavola e finalmente parliamo. Io sento un crampo allo stomaco e un nodo mi stringe la gola. Poi mi sfogo, parlo per tutto il pranzo, esprimo a lei tutta l’amarezza che mi ha soprafatto. Elesta non esiste più, dico, al suo posto c’è un’altra cosa, una brutta cosa che non mi appartiene. Come è potuto succedere… come è stato possibile realizzare uno scempio del genere? Lo chiedo a lei e lo chiedo anche a me stesso… Ma non ho risposte e anche Rosetta tace. Le dico che non voglio più fermarmi in paese come inizialmente avevo pensato di fare e, terminato il pranzo, le chiedo di rientrare a Cagliari. Mi tratterrò qualche giorno da lei, dirò anche ai fratelli che per me la vecchia casa messa lì non ha più senso e che perciò, se fossero d’accordo, la si potrebbe mettere in vendita quanto prima. La sera telefono a Elizabeth, parliamo a lungo, le racconto la mia giornata deludente. In certi momenti mi arrabbio, in altri mi commuovo. Alla fine Elizabeth mi chiede cosa intendo fare. Le rispondo che il mio sogno s’è infranto e me ne debbo fare una ragione. Rientrerò a Londra e scriverò una lettera aperta agli abitanti di Elesta. Chiederò loro di riflettere sulle scelte fatte, di parlare con gli urbanisti e con i sociologi più qualificati. Non si può consegnare ai propri figli un tale sfacelo in nome delle nuove tecnologie… Di più cosa potrò fare? Non so proprio. So solo che le pale eoliche, i pannelli solari e le antenne paraboliche sono oggi di grande utilità per il progresso del pianeta, ne sono convinto, ma sono altrettanto convinto che il loro utilizzo vada dosato e governato con attenzione. Sono molto triste, oggi mi sento come un orfano.ù Ho perso il paese dove son cresciuto felice. La mia cara Elesta non c’è più. |
Eppure ad Elesta un buon venditore deve essere andato.
Come tanti disinteressato al denaro, interessato alla modernità, al bene ed al bello.
Non più cieli azzurri noiosi, non più Ambiente e Natura pedanti.
Solo pale eoliche giganti, solo pannelli solari infiniti qui servono.
Ed è Arte !