Quali intellettuali in Sardegna? [di Piero Marcialis]
Si scalda (forse) il dibattito sugli intellettuali in Sardegna. Non mi soffermo a dire che intellettuali siamo un po’ tutti, dallo scrittore all’artigiano, dal professore all’informatico. L’utopia di Platone, che siano i filosofi a dirigere lo Stato, ammesso e non concesso che sia una soluzione, stride al massimo dell’ironia quando vedi che a governare lo Stato ci sono i Renzi, ma il guaio vero è quando a governare un popolo in cerca della sua sovranità ci sono i renziani. Noi che seguiamo le orme di Gramsci nel cercare di definire chi è, che cosa fa, l’intellettuale, e ne diamo una identità diffusa, nel produrre economico, culturale, politico, dobbiamo pure chiederci se in Sardegna questo “fare” intellettuale esista o no. Nella politica, mentre ci scaldiamo al pensiero della Scozia e della Catalogna, stiamo immobili in attesa che lo Stato Italiano ci dica esso in che consiste la nostra autonomia, la nostra sovranità, la nostra indipendenza e, mentre passa inutile il tempo della nostra liberazione, avvertiamo che queste belle idealità si avvicinano allo zero assoluto. In economia altri poteri esterni, assai poco intellettuali, e invece militari, statali, esotici miliardari e quant’altro, decidono essi la sparizione dell’agricoltura, il deserto, il controllo dell’ambiente e della salute. E la produzione culturale? Se è vero in generale che siamo avviati ad essere, in tutti i campi, piuttosto consumatori che non produttori, questo è drammaticamente evidente riguardo al produrre cultura. Formazione, scuola, teatro, cinema, editoria, sono bloccati al consumo di produzioni esterne, alla semplice diffusione del pensiero altrove pensato, la maggior parte dei nostri operatori in questi campi sono convogliati e invogliati a formare, insegnare, inscenare, fotografare, editare, storie che riguardano vicende, tradizioni, cultura, linguaggi, di altri popoli. L’Università sarda non ha che esili rapporti con la Sardegna, potrebbe abitare altrove. Qualche pattuglia impegnata, da “intellettuali organici”, a produrre oggetti propri della cultura sarda (dalla lingua alla storia, dalla tradizione ai problemi di oggi), che non abita in torri d’avorio (chiamiamolo avorio…) ma è scesa in strada, vive uno stato di dipendenza economica, di isolamento politico, di sospetto culturale. Prendiamo anche solo il teatro. inglesi, spagnoli, francesi, napoletani, veneziani, genovesi, lombardi, romani, e aggiungete tutti i popoli e nazioni che volete, hanno il loro teatro nazionale. Anche i sardi lo avrebbero, però… Però è considerato di serie B. C’è un politico, un partito, un settore di maggioranza o di minoranza che si sia posto il problema di dare impulso all’affermazione di un teatro del popolo sardo? L’accoglienza che si fa al teatro “italiano”, spesso traduzione di altri teatri nazionali, è assolutamente di privilegio rispetto al teatro sardo, che sia traduzione o prodotto originale. Se il teatro in generale, in Italia e in Sardegna, versa in tristi condizioni, la situazione di chi vuol fare teatro sardo è addirittura di agonia: teatri chiusi, compagnie sciolte, riduzione a rappresentazioni senza scenografie, senza ausilio tecnico, monologhi e reading in locali “alternativi” (per forza) o per la strada. Continuiamo così, facciamoci del male. *L’articolo è pubblicato contemporaneamente in La Rete dei Blog
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Alcune riflessioni perché il dibattito sul ruolo degli intellettuali si misuri concretamente con i problemi di oggi.
C’è un passo dell’articolo di Piero da cui traggo spunto per alcune brevi considerazioni. Riguarda l’Università sarda. Dice Piero: “L’Università sarda non ha che esili rapporti con la Sardegna, potrebbe abitare altrove”. Ed ha proprio ragione. Alcuni giorni fa su La Nuova Sardegna l’economista Andrea Saba auspicava nuove e diverse strade di sviluppo dell’economia, basate prima di tutto su quanto di nuovo si sta facendo nella realtà in controtendenza rispetto alle scelte del potere finanziario dominante. Andiamoci dentro queste esperienze perché la crisi “non si risolve a tavolino o nelle aule universitarie: richiede una forma continua di “learning by doing”, cioè di apprendimento dalla esperienza, di cui i governanti, a tutti i livelli, dovrebbero tenere conto per formulare politiche opportune”. Ecco, in tale approccio, che peraltro è quello proprio della ricerca scientifica, c’è l’invito a costruire “nuova teoria” che divenga base di efficaci nuove politiche economiche. A mio avviso tutto ciò richiede un impegno più consistente e più esplicito degli intellettuali, a partire da quelli pagati dalla collettività per questo compito, parlo pertanto degli universitari. Più volte abbiamo richiesto che l’Università smetta di chiedere aiuti al Paese, cosa evidentemente legittima, ma più importante e urgente è che essa si chieda cosa può fare per il Paese e quindi per la nostra Sardegna. E’ necessario pertanto che l’Università si approcci diversamente ai problemi dello sviluppo, che la smetta con la pratica dell’autoreferenzialità e che si renda aperta e disponibile. Qualcosa di diverso da quanto oggi succede nei nostri Atenei e in particolare in quello di Cagliari, seppure non si devono sottovalutare i numerosi fermenti innovativi che si agitano al suo interno di cui sono portatori soprattutto giovani ricercatori e che spero determinino presto il rinnovo della governance accademica. In tema: credo che occorra ormai ragionare come Università della Sardegna, senza annullare la storia dei due Atenei sardi, ma sapendo adeguare le Istituzioni alle nuove esigenze della Sardegna
Nel 1927 apparve in Francia il celebre saggio di Julien Benda intitolato “Il tradimento dei chierici”.Chi sono i chierici,” clercs” in francese?. Sono gli intellettuali dell’epoca, ma di origine medioevale, che secondo Benda tradivano la ragione o meglio l’uso che se ne fa di solito nell’agire quotidiano, 0 in letteratura.Beninteso, Benda aveva di mira le correnti letterarie e filosofiche del suo tempo come il Surrealismo, . Oggi, in Italia, nell’ambito politico, criticare troppo Renzi come poco intellettuale e il renzismo mi pare sia troppo avventato. L’Italia non ha una tradizione politica e culturale unitaria; è uscita dagli storici sette stati preunitari. Renzi è toscano, la su CULTURA è toscana, macchiavellica forse, ma anche rinascimentale .Succede ad un Berlusconi erede di una tradizione settentrionale diversa, infatuata di successo imprenditoriale. Il meno perdonabile degli errori berlusconiani a mio giudizio è stato quello di allearsi con la lega, un movimento che come tutti i populismi tradisce la ragione, non concerta l’avvenire assieme al resto dell’Europa.
In un discorso impostato in questi termini, il teatro sardo sembrerebbe entrarci poco. In realtà, poco o tanto, è fondamentale che il teatro in Sardegna ci sia, come c’è in effetti sotto forma di Teatro lirico a Cagliari e di Auditorium a Sassari. Ricordo anche che Francesco Masala ha scritto una “Storia del teatro sardo” , e ciò attesta la sua ‘importanza nell’isola. Ci sono le istituzioni, l’intellettualità sarda dovrà fare il resto, soprattutto se i giovani intellettuali non scappano altrove, oppure se partono ritornino, magari saltuariamente, come Alberto Mario Delogu.