Jobs act what? [di Raffaele Deidda]
Commentava Paolo Pagliaro a Otto e mezzo che non si capisce perché in Italia siano utilizzati termini inglesi come spending review e Jobs Act. Riferiva che gli americani ironizzano sul vezzo italiano di pescare dall’inglese magici slogan. Non si capisce perché in luogo di spending review non si usi l’espressione revisione della spesa. In italiano e in inglese, è sempre il processo “mirato a migliorare l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica attraverso la sistematica analisi e valutazione della pubblica amministrazione nelle sue strutture organizzative statali, delle procedure decisionali e attuative, dei singoli atti all’interno dei programmi e dei risultati finali”. Allora perchè l’inglese? Eppure il rapporto fra la politica italiana e l’idioma di Albione non è mai stato dei migliori, salvo lodevoli eccezioni. E’ ancora nella memoria il “Plis visit Itali” di Rutelli e il “Nos only” di Berlusconi. Molti ricordano anche il “Torino is Italis fisst capital” di Piero Fassino. E’ solo una secondaria questione di pronuncia? Non proprio. Nei rapporti internazionali la pronuncia è forma e contenuto insieme. Difficile non convincersene riascoltando l’intervento in inglese di Renzi al Digital Venice a luglio (https://www.youtube.com/watch?v=oqJY4MLK2r4). Di fronte a una platea competente in politiche digitali dall’ottimo inglese, Renzi si è lanciato in dissertazioni coniugando improbabili neologismi, balbettii, pronunce azzardate con effetti esilaranti. In particolare, la frase “One piece of future” pronunciata come “uan piss of futur” (sic!). E poi la pronuncia non conta! Questa la parte “funny”. Passando a cose “more important”, perché chiamare Jobs Act ciò che il Vocabolario Treccani traduce in Piano per il lavoro? Anche in considerazione del fatto che in inglese Act è l’atto amministrativo approvato dal Parlamento e promulgato dal Capo dello Stato. Non è quindi rapportabile alla Legge delega sul lavoro in cui la minoranza del Pd intravede anche seri rischi di incostituzionalità e fa dire a Stefano Fassina (Fassina who?) che l’obiettivo vero del Jobs Act è la “libertà di licenziamento”. Fassina che vede il Pd di Renzi “sempre più in linea con gli interessi più forti e meno vicino agli interessi e alle domande delle persone che cercano lavoro e che sono precarie”. Renzi intanto va avanti e non è escluso che ponga la questione di fiducia sul suo Jobs Act, che definisce “una sfida audace e fondamentale”. Tanto che il Governo ha messo 200 milioni di euro per l’attuazione della legge delega, mentre solo i fondi annunciati per avviare dal 2015 l’estensione degli ammortizzatori sociali agli esclusi ammontavano a 1,5 miliardi di euro. Verrebbe da concordare con chi ritiene che l’inglesismo (anzi, l’americanismo obamiano) del termine, presentato con job al singolare, poi al plurale, e talvolta col genitivo sassone, sia mirato a stupire il cittadino-interlocutore, privo di strumenti di verifica e d’interazione. Che la comunicazione “del fare” passi dal “comunis agere” all’informazione-propaganda? Come si può infatti parlare di svolta contro la precarietà se restano in piedi decine di tipologie di contratti precari? Cosa c’entra l’abolizione dell’art.18 con la “sfida audace e fondamentale”? Che relazione ha il Jobs Act di Renzi con quello di Obama, acronimo di “Jumpstart Our Business Startups” Act, legge Usa del 2012 che ha rimosso restrizioni e agevolato l’accesso alla raccolta di capitali per le piccole imprese, specie per quelle in fase d’avvio? Ce lo spieghi il presidente del Consiglio. Magari in italiano, così si capisce meglio. |
Concordo perfettamente e aggiungo che è ancora più ridicolo sentire le parole in lingua straniera con tante pronunce differenti – che si tratti di politici, giornalisti, annunciatori e quant’altro ! – così da suscitare almeno perplessità e senso del ridicolo.