Indipendentismo e violenza politica [di Maurizio Onnis]
Non è raro che i movimenti indipendentisti facciano leva sulle difficili condizioni della popolazione che tentano di mobilitare. Soprattutto in tempi di crisi, è facile puntare insieme all’emancipazione socio-economica e statuale, legando la seconda alla prima. Ed è assai più facile che, in tali contingenze, venga accolto un appello alla lotta più dura contro il governo dello Stato oppressore e occupante. Fino al richiamo alla lotta armata, presentata come un’alternativa dolorosa ma necessaria per raggiungere l’obiettivo. Per un indipendentista, ribellarsi al governo oppressore è giusto. Su questo non c’è dubbio. Lo è almeno dall’affermarsi del contrattualismo cinquecentesco e dal formarsi del pensiero politico che definisce il patto tra il sovrano e i suoi sudditi. Tra i tanti esempi che costellano la storia degli ultimi secoli, si può citare come primo e più chiaro l’Atto d’Abiura con cui le sette Province Unite dei Paesi Bassi del nord denunciarono la monarchia di Filippo II di Spagna, nel 1581. Una vera e propria dichiarazione d’indipendenza, che precorse di circa due secoli Jefferson e i costituenti americani. Essa afferma che «i sudditi non sono stati creati da Dio per esclusivo vantaggio del principe, cioè per essergli obbedienti in tutto ciò ch’egli comanda, che comandi una cosa giusta o ingiusta, pia o empia, e per servirlo come degli schiavi. È invece il principe che esiste in funzione dei sudditi, senza i quali non potrebbe esser principe, al fine di governare secondo diritto e ragione […]. Quando non lo fa e, invece di difendere i suoi sudditi, cerca di schiacciarli, di togliere loro i privilegi e le antiche usanze, di comandarli soltanto e di servirsene come schiavi, allora non deve più essere considerato un principe, ma un tiranno. E, in quanto tale, i suoi sudditi, secondo diritto e ragione, non lo possono più riconoscere come loro principe; possono abbandonarlo […] senza essere in torto». Affermazioni straordinarie, che portarono in breve le Province Unite a diventare una repubblica: quella che oggi conosciamo come Olanda. Affermazioni straordinarie che si attagliano perfettamente anche alla nostra situazione. Non hanno forse i sardi, detentori di un potere sovrano sul proprio destino, il diritto legittimo di ribellarsi a uno Stato che, nel suo governo centrale come nelle ramificazioni locali, è incapace di garantire la giustizia e il benessere chiesti già a suo tempo dagli olandesi? Certo che ce l’hanno. E nessun sardo che tenga davvero alla propria integrità può accettare, senza provare un moto di profonda insofferenza, soprusi come quelli legati all’occupazione militare del territorio o all’incombente sfruttamento energetico della Sardegna. Il patto stipulato all’atto di nascita della RAS è inadempiuto dal suo firmatario maggiore. Noi abbiamo però anche il dovere d’interrogarci su quale tipo di ribellione sia meglio. Il rifiuto opposto dagli olandesi a Filippo II portò a una guerra, mossa dagli spagnoli, che durò decenni: Madrid riconobbe l’indipendenza delle Province Unite solo nel 1648. Per fortuna, erano altri tempi. Sono passati secoli e il Novecento ci ha offerto almeno due luminosi esempi di popoli riusciti ad emanciparsi senza ricorrere alla rivolta armata e alla guerra contro il governo oppressore: l’India e il Sudafrica. Per contro, ci ha offerto parecchie prove di come l’indipendentismo militarizzato, che ottenga o meno il suo obiettivo, causi catene di lutti: Kenya, Indonesia, Palestina, Algeria, Vietnam, Corsica, Irlanda del Nord, Paesi Baschi. E molti altri ancora. Qui, è bene ricordarlo, la discriminante non è raggiungere l’obiettivo: ottenere o meno la libertà. Per l’indipendentismo maturo la vita umana è inviolabile e l’indipendenza guadagnata su un cumulo di cadaveri non ha valore. Detto in termini ancora più fermi: tutta l’indipendenza della Sardegna non vale il sangue di un solo sardo o di un solo italiano. Non nel 2014. Non se si vuole guidare la storia, anziché farsi succubi delle sue più lugubri tendenze. Dobbiamo ribellarci al governo tiranno, certo. Abbiamo bisogno di una rivoluzione, certo. Ma è una rivoluzione civile, molto più faticosa di quella che imbocca la scorciatoia della violenza politica. Abbiamo bisogno di amministratori locali indipendentisti che mostrino ai cittadini che si può governare bene e nell’interesse comune, d’insegnanti che portino la storia e la lingua sarda a scuola, di agricoltori che curino la terra insieme perché produca ciò che ci serve per mangiare e ridurre le importazioni alimentari, di imprenditori che abbiano successo e mostrino che i sardi sanno costruire un’azienda come e meglio degli altri, di riprenderci pezzo per pezzo la nostra sovranità, a cominciare da fisco, trasporti, energia, gestendola in modo degno. Ci vuole molto tempo. E si fa in pace. Parecchi segnali dicono che l’Italia va verso una stretta conservatrice e accentratrice, in politica e in amministrazione, proprio mentre in Sardegna prende finalmente forma una coscienza indipendentista diffusa. È una partita da giocare a viso aperto: se i sardi crederanno in se stessi, per vincerla saranno più che sufficienti le armi della democrazia.
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Maurizio, sono abbastanza d’accordo sulla sua analisi e trovo addirittura commoventi le citazioni sulla dichiarazione d’indipendenza dei fiamminghi del ‘500. Ciò che invece mi lascia perplessa è il suo allarme rispetto un’eventuale lotta armata.
Appartengo ad un partito che da parecchio tempo ha scelto la svolta pacifista e civile nella propria lotta politica, praticamente da quando è nato. Sarà stato perché i fondatori, di sangue versato ne avevano visto già abbastanza nel fango delle trincee.
Riferendoci invece al mondo indipendentista attuale, non mi pare che che ci sia da preoccuparsi in fatto di lotta armata. Levati alcuni cespugli che si sono già scissi, a quanto pare, diventando macchiette, il resto del mondo indipendentista/identitario è impegnato fondamentalmente su due versanti: uno di testimonianza e presidio sul territorio e l’altro dove si cerca di conquistare le sedi istituzionali.
Che entrambi poi riescano in questa impresa, è altro argomento, ma mi sento di rassicurarla circa i suoi timori.
Naturalmente le schegge impazzite, le fughe in avanti, il narcisismo alla base di ogni follia mascherata da fede politica è impossibile controllarli, ma non rappresentano affatto il nuovo l’indipendentismo sardo. Saluti.
Bustianu Cumpostu S’articulu no est malu, cheret elgiudu chin atentzione meda, non mi paret chi fagat dannu ma aberit solu un’arregionu. Maurizio Onnis isbagliat cando ponet su problema de sa luta armada pro s’indipendentzia (mi rifiuto de faeddare de violentzia ca est unu cuntzetu relativu) faghende cumprendere chi custa detzisione, de la praticare o no, dipendat dae solu dae s’indipendentismu cando inbetze no est gai pro nudda. Su livellu de iscontru e sa pratica de iscontru los determinat solu s’itadu opressore e non sa natzione oprimida, sa cale no at perunu interesse de mantennere sa cundierra in d’unu campu perdente e pro cantu li est permissu mantenet s’icontru in ambitu politicu. Sa luta armada la criat sa violentzia de s’istadu opressore cando pertubit sos tretos pro praticare una cundierra patzifica e politica. Si Bascos, Corsos, Irlandesos, Plalestinesos, Cecenos, Tibetanos e ateros in tzertas fases de sa luta de liberatzione natzionale issoro ant praticadu sa luta armada contra s’opressore cheret narrere chi sa violentzia de s’opressione non lassiat tretos de pratica politica. Nois in Sardigna amus seperadu de sighire a secare su casu chin su curteddu de plastica, gai la pessant totu sos indipendentistas sardos e a faghere gai cumbidamus totu sos indipendentistas de sas natziones impedidas, ma non cundennamus a nessune ca cada populu oprimidu at diritu de si defendere a manera sua.
Un’atera cosa agiungo, dae s’articulu diat parrere chi sa luta de liberatzione natzionale de unu populu impedidu siat movida dae su istare male faghende cumprendere chi si su istare male diat bennere superadu chin su istare bene diat bennere a mancare su motivu pro pedire s’indipendentzia. Caru Mauritziu ti naro solu chi su cane preferit de essere isortu e liberu chi non presu e ligadu a sarditza.