Applichiamo le norme antifasciste [di Pierluigi Onorato]

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1 – Non è solo per un proprio dovere istituzionale, ma per una più profonda sensibilità storica, che l’ANPI richiama l’esigenza di rilanciare la cultura antifascista nel nostro paese, in un momento in cui questa cultura si indebolisce, o semplicemente si ritualizza, o addirittura lascia il posto alla indifferenza delle giovani generazioni o alla rinascita di agguerrite sottoculture fasciste, spesso ambigue e perciò più pericolose. Se questo è vero, occorre rivalutare oggi il senso del diritto antifascista emanato in Italia dopo la Costituzione repubblicana. Infatti, quando una cultura è forte può fare a meno del diritto che la sancisca; quando la cultura è debole non può rinunciare al ruolo promozionale del diritto. Si ripropone in sostanza lo stesso problema sollevato da Renzo De Felice in una intervista che fece scandalo, pubblicata dal Corriere della Sera nel dicembre 1987, il cui senso era ben riassunto nel titolo: “Le norme contro il fascismo sono grottesche. Aboliamole!”.

Solo che, oggi più che mai, la tesi dello storico revisionista del fascismo va capovolta: “Le norme contro il fascismo hanno un profondo senso culturale e democratico. Applicamiole!

2 – Per capire meglio, è utile tener presente la genesi dell’art. 49 Cost., che configura la concezione democratica dei partiti politici, e della XII disposizione transitoria e finale della nostra Carta repubblicana, con cui il Costituente ha inteso attuare le sanzioni contro il fascismo, imposte dagli Alleati come condizione del trattato di pace. In esito alla discussione nella Prima Sottocommissione, competente sulla materia, sulla base delle sollecitazioni e delle argomentazioni svolte da Togliatti, si decise di non richiedere il requisito dell’organizzazione democratica nella disciplina costituzionale dei partiti politici (la cosiddetta democrazia interna). Secondo Togliatti, quel requisito offriva il pretesto a ingerenze antidemocratiche nella vita dei partiti. Si doveva invece soltanto impedire la riorganizzazione del Partito Fascista storicamente determinato; mentre eventuali altri partiti contrari al sistema democratico dovevano essere combattuti esclusivamente sul terreno politico (è la cosiddetta garanzia politica, ma non giuridica, a difesa della democrazia, che ha storicamente caratterizzato la teoria e la pratica del PCI).

Risultato di questa discussione fu la formulazione definitiva dell’art. 49 e del primo comma della XII disposizione, che venne poi approvata in Assemblea. Secondo l’art. 49 “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In sostanza, questa norma consacra il pluralismo partitico con la sola condizione che venga rispettato il metodo della competizione elettorale e parlamentare (cioè la democrazia esterna). Non richiede invece alcun esplicito requisito di democrazia interna; con la conseguenza che: a) sinora il legislatore ordinario non è mai intervenuto per imporre un “minimo democratico” nell’organizzazione e nel funzionamento interno dei partiti politici; b) i giudici chiamati a intervenire nella materia hanno potuto applicare soltanto le regole dettate dal codice civile per le associazioni private non riconosciute.

A norma del primo comma della XII disp., invece, “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Al posto dell’iniziale articolo indeterminativo – “di un partito” – si adoperò l’articolo determinativo – “del partito” -, addirittura aggiungendo in sede di coordinamento l’aggettivo “disciolto”, sempre per confermare e rafforzare l’impostazione togliattiana, che mirava a delegittimare soltanto quella particolare esperienza storica di partito politico che era stata il Partito Fascista Italiano. A scongiurare il pericolo che una siffatta disposizione restasse senza portata normativa per il futuro, in quanto rivolta solo a un passato ormai storicamente risolto, restò per fortuna la iniziale “clausola di apertura” della fattispecie, ovverosia l’inciso “sotto qualsiasi forma”, che vieta non solo la riorganizzazione di quella forma di PF esistita in Italia sino all’avvento della Repubblica democratica, ma anche la organizzazione di ogni altra forma di partito che ne riproponesse le caratteristiche essenziali.

E’ importante notare la differenza che corre tra la nostra Costituzione e quella della Repubblica Federale Tedesca, nata anch’essa dopo la sconfitta del regime totalitario che aveva governato il Paese sino alla seconda guerra mondiale. La Legge Fondamentale della R.F.T. stabilisce infatti che “l’ordinamento interno” dei partiti “deve corrispondere ai principi fondamentali della democrazia” (art. 21/1); aggiungendo che “ i partiti che, per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti, si prefiggono di danneggiare od eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della RFT, sono incostituzionali” (art. 21/2). Con tutta evidenza sono ammessi soltanto quei partiti che proclamino e pratichino il metodo democratico sia nell’organizzazione e nel funzionamento interni, (democrazia interna), sia nelle finalità e nei comportamenti esterni (democrazia esterna).

Queste differenze si spiegano verosimilmente col fatto che il Costituente italiano, diversamente da quello tedesco, ha considerato il fascismo definitivamente superato in quanto battuto non solo dalle armi straniere ma anche dalla resistenza del popolo italiano.
Orbene, l’impostazione adottata dai padri costituenti aveva un senso allora, quando la cultura antifascista era ancora forte e solida. Ha meno senso quando quella cultura si indebolisce e si confonde. Tanto ciò è vero che lo stesso partito che ha raccolto l’eredità storica di quello comunista togliattiano, ha presentato una proposta di legge per disciplinare i requisiti di democrazia interna dei partiti politici.

3 – Altrettanto istruttivo della evoluzione storica dell’antifascismo è mettere il fuoco sulle norme che hanno dato attuazione alla XII disposizione finale. Com’è noto, (dopo la legge 1546/1947) è intervenuta la legge Scelba n. 645/1952, che ha sanzionato penalmente sia la riorganizzazione del PF (artt. 1 e 2), sia l’apologia del fascismo (art. 4) e le manifestazioni fasciste (art. 5).

Il problema più delicato, sia dal punto di vista giuridico che storico-politico, riguarda non tanto l’attuazione degli articoli 1 e 2, quanto dalla operatività dell’art. 4 e dell’art. 5.
Infatti, la definizione del partito neofascista, cioè della organizzazione sotto qualsiasi forma del PF, è sufficientemente precisata dall’art. 1, così come modificato dalla successiva legge Reale n. 152/1975. Secondo questo articolo si ha un partito neofascista “quando un’associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”.

Oltre le sanzioni penali, stabilite dall’art. 2 contro i promotori, gli organizzatori e i partecipanti, la legge prevede che, quando un giudice accerti con sentenza la organizzazione di un partito neofascista, il Ministro per l’interno deve ordinare lo scioglimento e la confisca dei beni del partito stesso (art.3). Così è avvenuto nei confronti di “Ordine nuovo” e di “Avanguardia nazionale”; mentre non è avvenuto in altre occasioni (almeno due) in cui all’accertamento giurisdizionale non è seguito lo scioglimento ministeriale del partito neofascista.

Comunque, su questo tema, non si può assolutamente sostenere che il divieto di organizzazione di partiti neofascisti contrasti con la libertà di associarsi in partiti politici riconosciuta dall’art. 49 Cost.. Ciò sia perché questa libertà è espressamente limitata ai partiti che accettino e pratichino la democrazia esterna; sia perché è chiaramente derogata dalla XII disposizione finale che ha esplicitamente vietato ogni partito neofascista.

4 – Più problematica è invece risultata l’applicazione dell’art. 4 sull’apologia del fascismo e dell’art. 5 sulle manifestazioni fasciste. La norma sull’apologia punisce chiunque fa propaganda per la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo di carattere fascista (come definito dall’art. 1), oppure chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo.

La norma successiva punisce chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del partito fascista ovvero di organizzazioni naziste (per esempio il saluto romano). In questi casi si è potuto sostenere con apparente fondatezza che le norme incriminatrici fossero in contrasto, rispettivamente, con la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e con la libertà di riunione pubblica (art. 17 Cost.). Ciò perché rispetto a queste libertà la XII disposizione non apportava alcuna deroga.

In questa materia è quindi intervenuta ripetutamente la Corte costituzionale, la quale ha “salvato” la legittimità costituzionale delle suddette norme incriminatrici solo in quanto siano interpretate restrittivamente come dirette (anch’esse) a scongiurare il pericolo di riorganizzazione del partito fascista vietata dalla XII disp..

Ma in questo modo ne ha inevitabilmente limitato e resa incerta la portata normativa.
Secondo una prima sentenza, la n. 1 del 1957, la Consulta ha stabilito che la incriminazione dell’apologia del fascismo è costituzionalmente legittima (non viola l’art. 21 Cost.) in quanto consiste non in una qualsiasi “difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista”, vietata dalla XII disp. finale (in sostanza l’apologia è legittimamente punita solo in quanto sia una istigazione indiretta alla ricostituzione del partito fascista).

Sulla stessa linea si colloca Corte Cost. n. 74/1958, la quale ha dichiarato legittima la incriminazione delle manifestazioni fasciste, in quanto vengono proibite solo le manifestazioni pubbliche (anche se commesse da una sola persona) “idonee a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”.

In sostanza, secondo la giurisprudenza costituzionale, apologia di fascismo e manifestazioni fasciste sono reati solo in quanto “strumentali” alla riorganizzazione del PF.
In applicazione di questi principi, la giurisprudenza ordinaria ha quindi applicato l’art. 4 e l’art. 5 della legge Scelba solo se e quando configurassero reati di “pericolo concreto” rispetto alla riorganizzazione del PF. Che il pericolo debba essere concreto e non astratto significa che non tutte le apologie e le manifestazioni neofasciste sono per se stesse idonee a produrre una riorganizzazione del partito neofascista. E’ stata quindi inevitabile una oscillazione dei giudici di merito nella valutazione della pericolosità concreta delle varie fattispecie sottoposte a giudizio.Per esempio, in ordine all’apologia si è ravvisato il reato nel disegno sui muri di svastiche o di fasci littori. Invece si è escluso nel caso di lanci di manifestini inneggianti al fascismo e alla Repubblica di Salò.

In ordine alle manifestazioni fasciste, è stata affermata la responsabilità penale per chi intona l’inno “all’armi siam fascisti”; per chi fa il saluto romano durante un comizio del MSI. Mentre è stato escluso il reato per il fatto di impiegare la parola “camerata” all’inizio e alla fine di un comizio; per il fatto d’intonare pubblicamente l’inno “Giovinezza”; o per il fatto di sfilare pubblicamente con gagliardetti d’ispirazione fascista. E’ di per sé evidente la incoerenza di simili soluzioni.

Il limite di questa impostazione è quello di considerare la legittimità dell’apologia di fascismo e delle manifestazioni fasciste solo alla luce della XII disp. finale. Con la conseguenza inevitabile di rendere incerta o addirittura impossibile la configurazione del reato.

5 – In seguito però s’è registrata una evoluzione della giurisprudenza costituzionale nella considerazione dei limiti costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero e delle altre libertà fondamentali riconosciute nella Carta repubblicana. In particolare, rispetto alla libertà di pensiero sono stati ravvisati limiti non solo nella tutela di beni privati implicitamente rinvenibili nella Carta, come il diritto all’onore e alla reputazione personale (per cui resta reato ingiuriare o diffamare una persona), ma anche nella tutela di beni pubblici pure iscritti nella Carta.

Così, per limitarsi agli esempi più significativi:
nella sentenza n. 19/1962, la Corte, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 656 c.p. (che punisce la pubblicazione o diffusione di notizie false o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico), ha affermato che “anche la libertà di manifestazione del pensiero (…) incontra un limite nella esigenza di prevenire o far cessare turbamenti dell’ordine pubblico, il cui mantenimento è finalità immanente nel sistema costituzionale”;

nella sentenza n. 87/1966 ha riconosciuto la legittimità costituzionale del delitto di propaganda e apologia sovversiva (art. 272 c.p. , poi abrogato con una legge del 2006), affermando: a) che questo delitto puniva la propaganda della violenza come mezzo per conseguire un mutamento dell’ordine vigente; b) che “la libertà di manifestazione del pensiero non può ritenersi lesa da una limitazione posta a tutela del metodo democratico”;

nella sentenza 168/1971 (valutando la legittimità costituzionale dell’art. 650 c.p.) ha affermato che “la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo diverrebbe illusoria ove fosse consentito esercitarli in modo da compromettere altri beni e diritti, pubblici o individuali, non ricordati in modo espresso dalla Costituzione”. Fra questi va incluso l’ordine pubblico inteso come “ordine pubblico costituzionale”;
in genere in tutte quelle sentenze che hanno generalmente salvato la legittimità della c.d. legislazione di emergenza contro il terrorismo, la Corte ha affermato che la tutela dell’ordine costituzionale giustifica la incriminazione di ideologie e di comportamenti eversivi.

Questa evoluzione giurisprudenziale della Consulta, configura quella che si chiama “costituzionalizzazione dell’ordine pubblico”, come limite all’esercizio dei diritti fondamentali.

6 – Orbene, questa seconda impostazione costituzionale del nostro problema – a mio avviso – deve far riflettere la dottrina giuridica e la giurisprudenza; e deve indurre a superare acritiche accettazioni di opinioni stancamente ripetitive in materia di reati neofascisti, che gettano nella frustrazione o nella indignazione i settori più sensibili della cultura antifascista.

In conclusione, sembra ormai evidente ed è comunque incontestabile che l’ordine pubblico costituzionale costituisce un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, nonché alla libertà di riunione. In tal modo va riconosciuta la legittimità costituzionale del reato di apologia del fascismo e di quello di manifestazioni neofasciste, anche se non configurano un pericolo concreto di riorganizzazione del partito neofascista, e quindi indipendentemente dalla XII disposizione finale .

Si costituisce così una forma di tutela (penale) anticipata della democrazia antifascista che è imposta o almeno si giustifica non solo in base alla XII disposizione finale, ma anche in ragione della genesi resistenziale e del contenuto democratico dalla nostra Costituzione repubblicana.

E’ una forma di garanzia giuridica del nostro sistema costituzionale che si rivela sempre più imprescindibile in un momento storico come quello presente, in cui la garanzia politica e quella culturale si stanno rivelando insufficienti davanti al risorgere d’impulsi neofascisti e neonazisti, col risultato di un progressivo degrado della democrazia italiana.

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