Il presunto colpevole [di Veronica Rosati]
Noi tutti potremmo essere i vicini di casa ideali del “presunto colpevole” dell’ultimo omicidio che affolla tutti i programmi tv. Talk shows della notte, approfondimenti giornalistici, contenitori e varietà a tutte le ore del giorno. La cronaca nera è diventata una risorsa preziosa, perché fa audience. Dalla casalinga che il pomeriggio non ha voglia di stirare, al professionista che torna a casa giusto in tempo per godersi la prima serata dal divano. Tutti sembrano interessati ad essere aggiornati in tempo reale sugli sviluppi dei più famosi episodi delittuosi della settimana. Fatti veri e terribili diventano un bene di consumo sulla scia di uno sconcerto di massa. Milioni di sconosciuti si stringono in un virtuale abbraccio. È un dolore collettivo, esteriormente manifestato, perché deve viaggiare sui mass media. È fatto di lacrime e di fiumi di parole. Si fa sdegno ed incredulità quando sui teleschermi compaiono i volti dei vicini di casa del “presunto colpevole”. Una normalità squartata nell’animo. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella donna dal viso grazioso o quel serio padre di famiglia, avessero potuto compiere delitti così atroci. Sembravano persone normalissime, come noi. Avevano vite normali, come le nostre. Eppure, come commentano dagli studi televisivi, sono stati capaci di compiere atti terribili. È un dolore che si fa serio e freddo sui volti degli esperti interpellati. Guidano chiunque li ascolti con una scientificità oggettiva, doverosamente alla portata di tutti, in una collettiva volontà investigativa. Si sta assistendo ad un interessante fenomeno sociologico dove l’essere umano è portato a riflettere sul contesto di normalità entro cui avviene il male. È come se, in un avviato Terzo Millennio, l’uomo si stupisse della sua possibilità di compiere il male. Fa paura il male, sempre. Fa scattare incontrollabili meccanismi, al fine di allontanarci da tutto ciò che di brutto possa succedere a noi e ai nostri cari. Alcuni culturalmente, socialmente o spiritualmente validi. Altri più alla moda, ma terribilmente vuoti, anche se chiassosi, come l’audio delle nostre tv, coralmente sintonizzate su un programma di approfondimento della cronaca nera. Il progresso scientifico, in campo medico legale o, più in generale, in quello investigativo, accompagnato da una sua puntuale divulgazione, continua a dare l’illusione che chiunque possa essere giudice delle azioni di qualcun’altro. Non importa se siamo solo degli spettatori seduti dietro ad uno schermo, le prove scientifiche di quel fatto sono talmente chiare che bastano a se stesse. Immagini che una telecamera ha girato all’ora del delitto, il DNA di un uomo ritrovato addosso ad una giovane ragazza priva di vita, sono delle prove talmente evidenti ed oggettive da far immediatamente etichettare il soggetto in questione con l’espressione di “presunto colpevole”. Una cauta condanna, solo nella forma lessicale. A nessuno importa se quel conduttore tv o giornalista o lo stesso telespettatore non sono dei giudici o esperti di diritto. La scienza ha raggiunto livelli talmente alti da non avere più bisogno d’altro. È evidente, punto. Non servono processi equi, è la scienza stessa un giudice. Lo è fino a quando l’essere umano si ricorda di poter avere ancora un ruolo. Magari in un gonfio fiume di parole effimere. Ci si ricorda che il dato scientifico non è mai certo al cento per cento. Questo piccolissimo margine d’errore diventa un buco nero da riempire a piacere con ricamati sofismi. Mille motivi possono aver indotto il “presunto colpevole” a passare di là, come mostrato dalle telecamere, ma non necessariamente per compiere il delitto. Quelle tracce biologiche finite sugli abiti della vittima possono essere lì per una serie di fatti casuali, come in un vortice di urti accidentali di persone senza volto sulla metropolitana affollata dell’ora di punta. Il telespettatore vede oltre lo schermo del suo salotto ciò che in quell’istante ha bisogno di vedere. Vuole allontanarsi da ogni forma di male e lì vede il modo più rapido in cui ciò può accadere. Si illude che nulla di male lo possa colpire, ma non ha tempo per pensare. Si crede perfetto e si pone come un giudice improvvisato di chiunque sia diverso da lui. Madri e padri perfetti, dal passato e dal presente perfetti. Mariti e mogli dalla condotta esemplare scavano attraverso l’operato dei team dei contenitori televisivi nelle vite dei “presunti colpevoli”. Fino al giorno del delitto erano persone normalissime. L’hanno detto anche i vicini appena intervistati, no?! Ma allora, che spiegazioni possiamo darci? Forse la loro infanzia difficile, quella frequentazione extra coniugale o l’assenza di un padre hanno creato dei mostri? Tutto diventa una potenziale prova: anche il semplice possesso di un profilo su un social network o di un secondo numero di cellulare. Anche noi li abbiamo, ma non si sta parlando di noi. Non è del tutto chiaro, ma le parole degli psichiatri e dei criminologi interpellati ci hanno convinto e, forse, ci bastano. Una corsa forsennata alla ricerca delle cause del male, ci fa sentire al sicuro. Ci fa apparire la nostra normalità, migliore di quella dei vicini del “presunto colpevole”. Affidarsi alla giustizia sommaria dei mass media riempie il vuoto di una giustizia che non capiamo più. Magari è proprio l’aspetto mediatico che distorce la nostra percezione del sistema giudiziario italiano. O, forse, non è così. Le pene sembrano insufficienti per la brutalità delle azioni commesse. In alternativa, questo sentore è vivo a causa della superficiale teatralità attraverso cui i fatti ci vengono mostrati. Il vuoto vero o presunto si riempie con i proclami della tv e le condanne dei presentatori. Atroci e pesantissimi, ma anche fatui ed impalpabili, fino al compiersi del prossimo delitto. Per un telespettatore dagli occhi facilmente impressionabili, ma dal cuore ormai insensibile. Perché ha scoperto che basta spegnere la tv, per dimenticare i volti di tutte quelle vittime innocenti dei “presunti colpevoli”. |