Niente[di Francesca Gallus]
Per molti anni siamo stati una famiglia felice. Unita, solida, e, pur nelle difficoltà che la vita riserva ad ogni essere umano, felice. Siamo cinque figli, ed oggi abbiamo tra i 16 ed i 13 anni. Un solo anno, quasi esatto, di differenza fra tutti noi; i conti non tornano perché naturalmente ci sono i gemelli. I perfidi gemelli li chiamavamo quando erano piccoli, ma credo che tutti i gemelli si siano sentiti rivolgere epiteti simili. Da quando abbiamo memoria abbiamo abitato sempre nella stessa casa, una grande casa ad un solo piano, in un giardino incolto e rigoglioso di fiori selvatici, e una torretta con una stanza vuota: la stanza degli ospiti. Non molti e non frequenti, gli ospiti, per la verità, ma quei pochi e rari sempre graditi e ben accolti. Nostra madre, lei, ha avuto sempre un grande slancio ed un sincero piacere per accudire le persone. Dunque in special modo per accudire noi cinque, i cinque bambini Rosas. Certo ha avuto un grande coraggio ed una forza d’animo non comuni, quando, appena nati i gemelli, un tempo in cui eravamo tutti troppo piccoli per avere alcun ricordo, nostro padre la lasciò sola, andando per la sua strada che non sappiamo quale sia stata, perché da allora mai, con nessun mezzo si è fatto vivo con noi. Mai una lettera, gli auguri di Natale, un regalino per il compleanno o per un avvenimento speciale. Mai ha saputo quando abbiamo cambiato i denti da latte, se i nostri voti erano buoni, se per qualche accidente o fatalità qualcuno di noi aveva avuto bisogno del medico o di una fasciatura sul ginocchio. D’altro canto quest’ultima cosa non è mai successa; mai nessuno di noi si è ferito o rotto un braccio, o cadendo dalla bici si è sbucciato a sangue, fino alla carne viva ed è dovuto stare a riposo per una settimana, attento che la terra o la sabbia non gli sporcassero la ferita fasciata generosamente, che prima rossa e rosa tenero si è poi annerita di croste, e imperlata di siero trasparente, da leccare, quando duole, chinandosi per arrivare con la lingua al ginocchio, e poi strappare le croste con le unghie, facilmente per il primo perimetro esterno, più a fatica poi, dove ancora immature lasciavano posto a una goccia rotonda di sangue brillante. Niente. Siamo stati sanissimi, sempre. Abbiamo studiato a casa, dapprima con mamma, i più grandi, poi da soli, gli uni con gli altri, fino a soddisfare ogni curiosità. I libri non mancano in casa nostra e c’è sempre stato, a portata di mano, nella grande biblioteca scura, con il tavolo di noce lucido ed il banco da scuola, per i più piccoli, proprio quel libro che avremmo desiderato, quello che, uscito da poco, ribaltava tutte le teorie fino ad allora ritenute valide, quello con gli esercizi più difficili o di cui avevamo appena letto una recensione, quello che, citato da un autore a noi caro, volevamo assolutamente leggere in un certo momento. Non è certo strano: siamo stati abbonati a diversi circoli librari, a quasi tutte le librerie della nostra città e a due o tre grandi negozi di libri della capitale, dai quali ogni mese ricevevamo i cataloghi aggiornati su cui scegliere le nuove letture. Veniva un signore poi, sempre lo stesso, con un carrello carico di grossi colli di cartone e spago, a consegnarci gli acquisti. Un triste signore magro, con un vestito verde, una divisa, che scaraventava con malagrazia i pacchi sul pavimento dell’ingresso e prendeva da mamma, certi foglietti scritti, niente assegni, niente soldi, ma forse impegni a pagare pattuiti col suo principale. Dopo, un baccanale. Cinque teste, dieci mani, guardavano, rompevano, tiravano, strappando il cartone, rompendo coi denti lo spago, arraffando ogni volume a portata di mano annusandone il profumo d’inchiostro nuovo. Abbiamo passato molto tempo in quella biblioteca, mentre mamma usciva a fare la spesa. Poi, nella cucina calda e umida di vapore, preparava nelle grandi pentole di alluminio minestre e arrosti, e patate al forno col burro fuso e verdure amare. Il gatto Giove mangiava una parte di quello che avanzava dalla nostra tavola, il resto, in grandi sacchi neri, finiva per strada, la notte, accanto ai piccoli mucchi di ciarpame, quasi niente in confronto alla quantità dei nostri rifiuti, che, dalle case vicine le domestiche depositavano in fretta, coperte dalla vestaglia e da sciarpe di lana grossa, guardandosi attorno timorose, paurose che un malvivente in vena di generosità, appostato al freddo, all’ombra di un portone, aspettasse proprio loro, malcurate e di mezz’età come erano, per assalirle proditoriamente e rubar loro un fiore già vizzo, rifiutato da altri, e offerto ogni tanto, nel sottoscala, a un padrone svogliato. Mamma usciva anche per andare a comperare le stoffe colorate con cui ci cuciva lei stessa i vestiti. Solo i gemelli potevano accompagnarla in quest’occasione, e quando tornavano erano stati veramente buoni nel negozio. Non avevano corso attorno al bancone non avevano tirato le stoffe svolgendole sul pavimento né gridato o pianto o insistito troppo per avere un tessuto di un certo colore impossibile, che proprio non andava bene con i vestiti che avevano già. Insomma non facevano niente di quello che ci si sarebbe aspettati da loro, visto il loro abituale comportamento. I perfidi gemelli hanno sempre dato a tutti un tormento tremendo, noiosi fino al limite, esageratamente uniti. I perfidi gemelli, discoli insostenibili, patologicamente vivaci, hanno fatto sempre tutto quello che avrebbero fatto da protagonisti di un fumetto. Hanno tirato la coda al gatto, lo hanno depilato col rasoio a mano, hanno tagliato a striscioline le tende del salotto, dato fuoco alla cesta del bucato da lavare, infilato le ranocchie dello stagno nei letti degli altri. Hanno devastato e raso al suolo peggio delle truppe del Generale ma sempre sono stati, dopo la furia, sudandoci baci umidi per farsi perdonare, dolci, affettuosi, servizievoli schiavi di capricci nati per vendetta. Le uniche persone intoccabili, con cui non si sono permessi monellerie, sono stati la nonna e il dottor Salimbeni. La nonna: la Nonna, si scrive con la maiuscola, come maiuscola è sempre stata lei in persona. Alta, dritta, bianca e nera. Niente sfumature, nessuna pietà. Entrava in casa da padrona, amata e odiata, temuta e desiderata. Era lei che tirava le tende della biblioteca per fare entrare la luce del giorno, metteva dei fiori di campo nei vasi di cristallo, apriva le finestre, riempiva le ceste del bucato dei nostri panni disordinati lei, che, la notte, buttava via tutta la spazzatura accumulata nel retrocucina. Si portava la tata Giulia, che, sempre dietro di lei, eseguiva precisa i suoi ordini secchi e autorevoli, mentre mamma, improvvisamente priva di forza e volontà, sedeva in un angolo del divano, costernata, confusa, col suo sguardo da crisi di nervi e stava immobile, contratta, per ore, sino all’ora di cena, quando la nonna, con un brodo caldo di semolino, dopo averla imboccata come una bambina la portava a letto, già caldo della borsa dell’acqua. La nonna dormiva nella stanza degli ospiti. Per tre giorni di seguito, due volte al mese, imperversava a casa nostra. Già il secondo giorno mamma era a letto con un gran mal di testa. Si camminava in punta di piedi allora, ci si sedeva ai piedi del suo letto, a turno, in silenzio per ore; la nonna di fronte, su una sedia rigida, dritta come lei, che mentre vegliava, infaticabile, piegava la biancheria leggera e ricamata della mamma, rammendava con piccoli punti le sue calze lunghe, faceva stracci dei nostri vestiti vecchi.
Dopo semolini, patate schiacciate, mela grattugiata, la tata e la nonna facevano fagotti degli stracci e di tutto ciò che ritenevano inutile in casa nostra, baciavano a turno la fronte della mamma e si chiudevano la porta alle spalle nel tardo pomeriggio di qualsiasi stagione dell’anno. Noi passavamo quei giorni immersi negli studi, approfondendo, nel silenzio, gli argomenti più complicati, interrotti solo per i turni di veglia al capezzale della malata. Già la sera l’emicrania era lenita e, sebbene ancora pallida e smagrita dalla dieta, mamma faceva la sua comparsa in cucina e mangiava con noi tutto ciò che la nostra dispensa poteva offrire di commestibile che non avesse bisogno di essere cucinato.
Era la cena della resurrezione, una gioia, una festa, un ritorno a casa. Ed era, sempre, tutto come prima. Come se la nonna non fosse mai venuta, come se non fosse successo niente. Quasi lo stesso avveniva col dottor Salimbeni. Anche lui a giorni fissi, coi suoi occhiali d’oro, si presentava alla porta, sorridente, mite, gentile. Prendeva la mamma per mano andavano nella stanza da letto e lui, coi suoi strumenti medici, misurava ogni cosa di lei: le guardava nel profondo degli occhi illuminandoli con un raggio dorato, le pungeva le punte delle dita facendo stillare minuscole gocce di sangue, altro sangue, dalle vene del braccio, veniva chiuso in una provetta, e poi la saliva, le lacrime, l’urina. Le prendeva la temperatura, le misurava la pressione e i battiti del cuore e annotava tutto in certi suoi quadernetti sciupati.
Noi stavamo fuori, si poteva guardare, niente di riprovevole o impressionante succedeva fra loro. Lui pacato e gentile parlava a voce bassa, con quel suo sorriso fisso e tenero, e c’era da chiedersi com’era davvero questo piccolo dottore meticoloso, con sua moglie, coi suoi bambini. Non avrà mai alzato la voce nemmeno con loro, avrà sempre sorriso così, anche nel mezzo di un aspro rimprovero, come capita di farne ai propri familiari?
Qualche volta,raramente, il dottore si fermava a dormire. Viveva infatti in un’altra città e veniva nella nostra apposta per visitare la mamma, che solo di lui si fidava. Noi non ci ha mai toccato, perché siamo stati sempre sani. La stanza degli ospiti era pronta, pulita, perché la nonna e la tata Giulia così la lasciavano, ad ogni buon conto. Prendeva il treno il mattino presto, il giorno dopo, e potevamo sentire dai nostri letti il traffico in cucina, per il caffè, i passi che andavano verso la porta e la sua voce serena che diceva: “Arrivederci Rosa, va tutto bene, come al solito”.
È l’unico che abbiamo mai sentito chiamare per nome la mamma. Ma è dall’inizio dell’anno che questa routine si è interrotta, o meglio, ha perso il ritmo, ed è diventata una girandola frenetica. Le visite della nonna più frequenti e più brevi, la presenza contemporanea del dottore, i loro sussurri, agitati, dietro le porte.
Le uscite della mamma e le sue spese sempre più abbondanti, i cibi stracotti, o semicrudi, da consumare in fretta prima che qualcuno bussi alla porta, i pacchi di libri, rispediti indietro dalla tata, improvvisamente autonoma nelle sue decisioni, e autorevole. Fino alla crisi di ieri. La mamma prostrata, spenta. Le persiane chiuse in fretta, il dottore, trafelato, con siringhe di medicinali e l’ambulanza di fronte alla porta. E poi il silenzio, la casa vuota e noi qui, senza più identità, senza destino, annullati dai farmaci e dalle cure che hanno fatto il vuoto nella fantasia della mamma, e hanno cancellato il suo mondo magico, costruito in sedici anni di alienazione.
Cinque figli non nati, cinque gravidanze immaginarie. Ci resta ancora un anelito di vita, lo strascico della sua volontà. Ci metteremo seduti attorno alla foto di un antico corteggiatore che, rifiutandola l’aveva incatenata a sé, per sempre, e aspetteremo di svanire, diventando un’aura, un fiato, un movimento lieve di polvere nell’aria. E torneremo niente.
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e però … che bel racconto!