I chierici rosso bruni di Jean-Loup Amselle [di Marco Dotti]

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il Manifesto del 19 dicembre 2014. Molti vengono dall’estrema sinistra e, da sinistra, hanno fatto un salto triplo a destra. Altri, invece, a destra ci sono sempre stati, ma hanno affinato linguaggio, armi e concetti. Altri, invece, a destra ci sono arrivati quasi involontariamente, per «osmosi» da imborghesimento, peggio, per una distorta applicazione della proprietà commutativa: «se le nostre parole sono le stesse e il nostro nemico è comune sono frasi, queste, che risuonano come un mantra tra molti chic annoiati che sognano di radicalismi a venire allora possiamo dirci dalla stessa parte».

Eppure, osserva Jean-Loup Amselle, antropologo e autore del recente Les nouveaux rouges-bruns. Le racisme qui vient (Editions Lignes, pp. 120, euro 14), sebbene tentativi di sintesi fra estremi e vicende di transfughi da sinistra a destra si siano sempre, anche se sporadicamente, verificati nel corso del secondo dopoguerra, oggi assistiamo a una configurazione nuova. Talmente nuova che, complice la confusione che regna sovrana sotto il cielo d’Europa, questa configurazione ha dato vita a una tipologia che rischia seriamente di popolare l’intero paesaggio intellettuale prossimo venturo: è la tipologia del rosso-nero a cui allude il titolo del lavoro di Amselle, un razzista che si muove con destrezza in una società postcoloniale e multiculturale.

Abbiamo incontrato Jean-Loup Amselle proprio a seguito di questo suo lavoro che, al di là dello specifico francese, sembra individuare una tendenza rosso-nera che anche in Italia guadagna ogni giorno a sé ampi spazi di manovra.

Nelle prime pagine del suo libro, lei parla di una «destra dei valori» che, sempre più, assume la posizione di «gauche de travail». La critica al liberismo economico è l’unico comune denominatore fra questa destra e questa sinistra?

L’associazione fra ciò che ho chiamato «gauche du travail», ossia la critica del liberali¬smo e del capitalismo, e «droite des valeurs», ossia la difesa della famiglia, delle tradizioni di mutuo soccorso del popolo e dell’educazione tradizionale, non costituisce in sé alcuna novità. La ritroviamo ovunque, nel fascismo come nel nazismo o, per meglio dire, nazionalsocialismo. La novità, secondo me, sta nel fatto che l’attuale fenomeno rossonero si inscrive nella congiuntura del secondo dopoguerra, segnata dalla crescente influenza delle idee dell’etnoantropologia e delle tesi postcoloniali. Se volessimo riferirci alla situazione italiana, dovremmo a mio avviso esaminare in modo molto preciso e netto le idee di Ernesto de Martino e Pier Paolo Pasolini, nel loro ambiguo rapporto con il fascismo. Limitandoci a Pasolini, non possiamo non dire che ritroviamo in lui un’attitudine tipicamente «primitivista» e ecologista che lo induce a preferire il fascismo alla società dei consumi, pensiamo alle sue famose «lucciole» e ai suoi Scritti corsari.

Scriveva infatti Pasolini: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi». In Pasolini possiamo al tempo stesso vedere un antenato delle idee postcoloniali. Pasolini idealizzava le società esotiche, africane, le società contadine europee del Mezzogiorno d’Italia o del Friuli. Nonostante fosse omosessuale, Pier Paolo Pasolini era un difensore della famiglia patriarcale. Esiste quindi – e cito Pasolini come esempio, affinché si possa capire bene il nodo davvero problematico della questione – una nuova congiuntura ideologica dentro la quale si sviluppa la figura del rouge-brune contemporaneo. Da un lato, con la valorizzazione delle società esotiche –  cosa che non esisteva affatto sotto Pétain o nel governo di Vichy, in Francia, durante la Seconda guerra mondiale, ma nemmeno sotto il fascismo in Italia o durante il nazismo in Germania — e, dall’altro lato, abbiamo l’inedita importanza acquisita dalla tesi postcoloniali.

Ci troviamo dunque in una nuova configurazione rosso-nera dentro una sfera che appartiene pienamente alla sfera multiculturale…

Attualmente assistiamo a una «razzizzazione» ambigua, di tipo postcoloniale che avanza anteponendo la logica dei «due pesi, due misure». Tutto questo è legato indubbiamente alla questione del conflitto israelo-palestinese e all’emergere di un nuovo antisemitismo. L’attuale giudeofobia non è infatti la prosecuzione dell’antisemitismo degli anni Trenta. E cosa ben diversa e poggia su un fatto elementare: possiamo prendercela fin che vogliamo con i musulmani senza correre alcun rischio, mentre se non possiamo toccare un solo capello a un ebreo senza rischiare di incappare negli strali di qualche «lobby sionista».

L’alleanza che esisteva fra le diverse minoranze etniche e religiose si è rotta poiché neri e arabo-musulmani oggi si considerano vittime delle attività di una minoranza attiva: quella della diaspora ebraica associata allo Stato d’Israele. Si stabilisce così una congiunzione fra antisemitismo, negazionismo e anti-imperialismo che ha tratti inediti. La lotta delle razze ha sostituito la lotta di classe.

Sul fatto che questo sia il nuovo spettro che inquieta l’Europa non c’è dubbio, ma resta da capire se si tratti di un fenomeno europeo o, viceversa, di tanti fenomeno regionali che rischiano di avere forti ripercussioni sull’Europa qualora trovassero la forza di legarsi strategicamente, non solo tatticamente.

Io penso si tratti di un fenomeno europeo, che però si può osservare quasi in ogni regione, sia nei paesi dove la prosperità economica ancora c’è – pensiamo alla Svizzera, all’Austria ma anche ai paesi scandinavi -, sia in nei paesi che sono più duramente colpiti dalla crisi: l’Italia, la Spagna, la Francia o la Grecia. Intendiamoci, però: non si tratta però di antagonismo fra «i bianchi» e gli altri, ma di un antagonismo fra coloro che si erano anticamente stabiliti su quei territori e i nuovi arrivati, siano questi ultimi europei o non europei. Questo spiega anche il fortissimo razzismo e l’ostilità nei confronti dei rom che, benché siano europei, sono ostracizzati come i maghrebini. L’onda nuova del populismo si spiega a mio avviso cogliendo questa dinamica.

Accanto al nuovo antisemitismo abbiamo però assistito allo sviluppo di un’attitudine contraria ma in qualche modo complementare che è stata anche da lei definita «judéophilie». Entrambe le tendenze sembrano fare i conti con entità «metastoriche», ossia con un soggetto – un popolo, una comunità, spregiativamente: una razza – sottratto alla dinamica storica, quasi si trattasse dii una «specie perenne»…

Credo che affermare il proprio amore per un qualsiasi gruppo – che siano ebrei, arabi, musulmani, neri, africani e via discorrendo – abbia un effetto. Un effetto che, in qualche modo, richiamandoci al linguista John L. Austin, potremmo chiamare un «lavoro performativo». Nel performativo mentre si afferma si fa, si produce qualcosa. E così, questo amore dichiarato nel momento stesso in cui viene dichiarato costituisce quel gruppo come tale. Mi sembra che il rimedio finisca così per diventare peggiore del male, perché il razzismo procede esattamente seguendo questa logica: imputazione di gruppo, negazione costante della esistenza degli individui. Oggi siamo dentro questa logica, sia quando pratichiamo odio sia quando affermiamo amore.

Lei è antropologo ma quello affrontato nel suo libro è un tema che si direbbe tipicamente sociologico. Perché impegnarsi in questa ricerca? Nell’introduzione parla anche di un’urgenza …

Credo che se c’è un’originalità nel mio libro discenda proprio dal fatto che a scriverlo è stato un antropologo con un’esperienza sul campo, presso alcune società africane. Il razzismo è una questione molto complicata che impone la necessità di avere una visione equidistante dalle società occidentali e da quelle «esotiche», cosa che non impedisce affatto – al contrario! – di assumere una posizione universalista. Per me, poi, ci sono due modi di fare antropologia. Il primo consiste nel mettere in rilievo le differenze per poi identificare le rassomiglianze.

Il secondo, a cui va la mia preferenza, consiste nel reperire ciò che gli anglosassoni chiamano «commonalities», ossia le rassomiglianze tra l’Occidente e le altre società, per riservare le specificità, in un secondo tempo, alla categoria di «resto» o a quella di «opacità» (pensiamo a Segalen o Glissant). La maggior parte degli antropologi francesi, ma non solo quelli francesi a dire il vero, che in una certa epoca si definivano marxisti, hanno abbandonato questa posizione per allinearsi al primitivismo e al culturalismo di Lévi-Strauss o al cognitivismo o al prospettivismo. Così facendo, viene negata la storicità delle società esotiche.

Tutti si alzano in piedi e puntano il dito davanti alla parola «negro», ma pochi ammettono che la questione, in una società composta da una molteplicità di gruppi etnici, è ben più complessa e sottile. Lei a questo proposito parla di un grado zero del razzismo. Di che cosa si tratta?

Il grado zero del razzismo è l’assegnazione identitaria di un qualunque individuo alla «sua» supposta origine. Rinviare i musulmani francesi a un’origine maghrebina o i neri a un’origine africana significa negare il fatto che essi sono e si sentono francesi. D’altronde, esistono oramai diverse forme di antirazzismo. Da un lato, l’antirazzismo delle organizzazioni antirazziste qualificate come «di bianchi» dalle organizzazioni «razzizate» che pretendono di rappresentare le minoranze etniche discriminate. Il problema posto dall’uso della nozione di «racisé», come se rappresentasse una realtà oggettiva, è che non poggia più sulla nozione di «razza» ed è per questo che io rifiuto la distinzione fra «razza biologica» e «razza sociologica». L’inversione dello stigma – negritudine, «black pride» — mantiene sempre qualcosa di presupposto, che ci viene restituito e positivizzato.

Il razzi¬smo che verrà – sottotitolo del suo libro — possiede già il proprio vocabolario: comunità, gruppo, diaspora, radici, autoctonia. A complicare la questione, però, va detto che molti fra i più influenti e meno sprovveduti rosso-neri, criticano gli avversari partendo da una logica relativista e culturalista.

Qui si pone la questione dell’universalismo. I postcoloniali e gli studiosi di subaltern studies criticano i «diritti dell’uomo» in nome di una necessaria «provincializzazione dell’Europa» — così si esprime Dipesh Chakrabarty – o perché questi diritti sarebbero «bianchi», pensiamo in questo secondo caso alla Conferenza di Durban III. L’universalimo è però difeso da filosofi africani come Souleymane Bachir Diagne, cosa che rende assurda l’assimilazione dei «diritti dell’uomo» all’Occidente. D’altronde, però, non possiamo opporre, per esempio, i Diritti dell’uomo (o della donna), in quanto occidentali, alle consuetudini tipicamente africane di questo o di quell’altro paese africano. Prendiamo ad esempio le mutilazioni genitali femminili: in certi paesi sono combattute da associazioni di africani che lottano contro queste pratiche.

Il neopopulismo è uno dei tratti che caratterizzano ideologicamente i rosso-neri. Ma è un populismo dall’alto. Mi sembra questa una delle linee più delicate: c’è un populismo a bassa intensità, élitario, intellettuale che, in nome della lotta ai disvalori e alle diseguaglianze prodotte dal mercato, fa leva su solidarietà verticali – di gruppo, appartenenza – dimenticandosi proprio della struttura materiale che segna e modella quelle disuguaglianze. Che ruolo giocano i mezzi di comunicazione nella diffusione di questo messaggio?

Giocano un ruolo capitale. I media sono corresponsabili dell’avanzare del nuovo populismo e dell’estrema destra, perché ciò che amano, questi media, sono i personaggi «ibridi», i rosso-neri appunto. Amano il filosofo provinciale, pensiamo a Michéa o Onfray, il nero antisemita, come Dieu-donné, o l’ebreo razzista, è il caso di Eric Zemmour. Amano tutto ciò che è in grado di confondere e offuscare le categorie e le opposizioni politiche. Questo fatto è particolarmente chiaro nelle reti di notizie che trasmettono a flusso continuo informazioni, anche sotto forma di bandelle situate in basso, nello schermo.

Sono reti particolarmente sottomesse alla dittatura dell’ascolto e indotte a creare costantemente fenomeni di disinformazione. Le reti sociali (Facebook o Twitter) danno però un contributo non inferiore a questa frenesia di disinformazione istantanea che va a tutto svantaggio della riflessione di lunga durata. Credo che per uscire da questa logica aberrante occorra denunciare il fenomeno, ma la stigmatizzazione in sé non basta. Dobbiamo sottoporre a critica certe nostre istanze, iniziare a decostruire, a capire. Solo così ce la faremo.

 

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