Almeno una volta all’anno: in città, una ragione in più ci deve ancora essere [di Mario Salis]
Di questi tempi a distanza appena di un anno e forse meno, si rischia di scrivere cose non molto diverse di quello che sta per concludersi. Può accadere anche nelle migliori redazioni, dove sempre si annida una sorta di cinico conformismo, quando le notizie si assomigliano inverosimili e identiche, diventando sempre meno news. Inosservati, sottaciuti, soprattutto sottovalutati, i fatti che cambiano il volto delle nostre città, segnando profondamente l’animo di chi vi abita. In passato si sfiorava oltre modo la banalità, le solite domande di un’esistenza priva di forti scosse che mai ti avrebbero cambiato la vita. Il Presepe o l’albero di Natale, un dilemma circoscritto tra babbo o papà e mamma. Quando ti chiedevano cosa ti porta Gesù Bambino o Babbo Natale oppure, quasi a scandire l’andamento lento, si rassicuravano sull’avvenuta spedizione a l’uno od all’altro della letterina a righe lunga due pagine, inconfessabilmente sotto dettatura, per essere puntuale sotto l’albero od il piatto della tavola imbandita. E non pensavi certo al corriere speciale od all’e-mail, tutt’al più ad una slitta trainata da un cavallo che arrancava tra la neve, perché le renne erano troppo finlandesi. Non si può raccontare una vita con i luoghi comuni, quando ci appare così travagliata da diversi anni. Per raccontare una città grande o di provincia, bisogna scendere per strada, dimenticando di viverci ogni giorno, facendo in modo quasi di non essere visti, se vuoi interpretare quei volti che la dignità rende anonimi e catturare ciò che dall’animo può trasparire. Sono scomparse le pause dei suoi giorni, come quando l’interrompersi del traffico pomeridiano, ci restituiva in chiaro i suoni più autentici. Oggi, ad ora una volta insolita, se cerchi di sbirciare in incognita tra i riflessi delle vetrine, ti accorgi di essere osservato con un certo interesse dall’interno, perché l’offerta commerciale ha instaurato l’orario prolungato, peraltro mai ripagato dagli esangui consumi. I bar si sono allungati con i loro tavolini all’aperto, sfidando perfino la stagione invernale e l’incertezza degli impoveriti avventori. Le librerie, e questa è la novità, sembrano essersi riempite, ma dura poco l’illusione del libro quale bene rifugio, purtroppo più spesso un regalo di ripiego, salutato da un ingrato e malcelato grazie di circostanza. Tuttavia può configurarsi un investimento. Ma con le difficoltà, ce lo insegna la Storia si cresce e si dispera, anche se si farebbe volentieri a meno della seconda eventualità. I bambini non più lasciati a casa ad aspettare i regali, sanno più di ieri quel che vogliono, destinatari privilegiati dei target pubblicitari. Per questo tirano energicamente la manica alla mamma, difronte al reparto telefonia e navigazione degli iper. Nel Largo Carlo Felice all’altezza dello storico Bazar Sant’Anna dove negli anni Cinquanta i più abbienti, anche se a pantaloni corti, potevano farsi immortalare in compagnia di Babbo Natale, pur stando deliberatamente dalla parte di Gesù Bambino, le note di una fisarmonica ti straziano il cuore e capisci subito perché sta suonando. Così come nella via Dritta di Oristano una ragazza col violino non ti fa cambiare umore anche se in testa porta qualcosa di rosso che richiama lontanamente il Natale. E proprio perché addossata su un antico patrizio edificio, acquisito dal pubblico: restaurato, ristrutturato ed oggi chiuso, perché non si é ancora deciso che farne, non ti fa cambiare idea, semmai ne sopraggiungono altre in fitta schiera, prive di un ragionevole motivo. Le tre bandiere istituzionali sugli edifici di rappresentanza, mai ammainate fino a diventare degli impresentabili cenci, hanno poco da garrire ad un vento della politica che non soffia più se non con l’imperversare delle polemiche che nulla smuovono, neppure gli agguerriti stendardi in lizza. Non stanno meglio gli striscioni delle vertenze sindacali, scoloriti, strappati che avvolgono i portici della Regione e che a fatica si riflettono sui vetri oscurati della portineria, dove giungono attutiti gli slogan scanditi dal ritmo dei caschetti sul granito. Giuseppe Prezzolini nel suo Codice della Vita Italiana, a soli tre anni dalla Prima Guerra Mondiale, già combattuto tra l’arte della mnemonica e del dimenticare, tarlo che lambisce anche oggi, ampi strati dell’informazione, decretava che in Italia “nulla è stabile fuorché il provvisorio”. Siamo ancora in largo anticipo, oggi che si celebra il Centenario. La ricchezza di questo Paese sta nei suoi ricordi, nel bene e nel male, che si ripropongono anche con dei paragoni, che la Storia non a torto però giudica improponibili. La parola ricorrente delle festività è sempre la stessa: “almeno una volta all’anno …”, il trionfo dell’ipocrisia e del cinismo che sembra emendare ogni colpa e responsabilità. Ma è la fiducia il più bel regalo che oggi può entrare in una casa, dove le porte chiuse fanno appena velo a tante difficoltà che sfiorano il dramma e la follia imprevedibile di una società borderline.
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