Jobs End, ovvero la fine del lavoro [di Domenico Tambasco]

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MicroMega 29 Dicembre 2014. Con l’approvazione dei decreti delegati arriva al capolinea il Jobs Act: l’ultimo tassello di un percorso ormai avviato da anni verso la totale liquefazione del lavoro. Ma verso quale modello economico tende un mercato del lavoro fondato su un paradigma di lavoratore “a resistenza zero”, del tutto sostituibile e fungibile rispetto ad altra forza lavoro?

Con l’approvazione preliminare, alla vigilia di Natale, dello “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, sembra essere giunta ad un arresto quasi definitivo l’opera governativa di radicale trasformazione del diritto del lavoro intrapresa, ormai da alcuni anni, anche e soprattutto su sollecitazione delle istituzioni europee ed internazionali.

Lo schema di decreto in questione, ancora non definitivo e che dovrà essere sottoposto entro trenta giorni al parere – non vincolante – delle competenti Commissioni parlamentari della Camera dei Deputati e del Senato[1], si pone quale attuazione dei criteri e principi direttivi indicati nell’art. 1 comma 7 della legge delega n. 183 del 10.12.2014, volta a “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo… in coerenza con la regolazione dell’Unione Europea e le convenzioni internazionali”.

Il presupposto teorico da cui dichiaratamente parte il legislatore dunque, è articolato: accrescere l’occupazione soltanto di “coloro che sono in cerca di occupazione”, considerando un contesto produttivo ed occupazionale incardinato sul dogma della “flessibilità”. Sembrano dunque totalmente ignorati – almeno per ora, in attesa degli ulteriori decreti attuativi – i cosiddetti NEET (acronimo di Not engaged in Education, Employment or Training), ovverosia gli individui (di età tra i 15 e i 29 anni) che non sono né impegnati nel ricevere un’istruzione o formazione, né hanno un impiego o qualcosa di assimilabile, e che in Italia hanno ormai superato la soglia dei due milioni, passando dal 21,6% del 2009 al 32% del 2014[2]: vite di scarto, prive della benché minima considerazione e lasciate al proprio destino. Rilievo confermato, peraltro, anche dalla lettura di quella che forse è l’unica vera misura innovativa del provvedimento in esame, ovverosia il “contratto di ricollocazione”[3], che tuttavia si rivolge esclusivamente ai soggetti in disoccupazione involontaria, destinatari di un provvedimento di licenziamento disciplinare illegittimo, collettivo o per giustificato motivo oggettivo.

Le fondamenta su cui si basa l’opera governativa sembrano, tuttavia, “costruite sull’argilla”, insistendo su un grave e persistente equivoco che da anni affligge il legislatore italiano: la duplice presunzione di creare posti di lavoro con un tratto di penna e in nome del dogma della flessibilità occupazionale. Teoremi, a parere di chi scrive, entrambi errati, che ricordano il tragico mito di Icaro, ambizioso personaggio della mitologia greca dalle ali di cera.

Buona parte dei giuslavoristi, infatti, ha la coscienza e l’umiltà di sostenere che il diritto del lavoro, in sé e per sé, non crea né può creare un solo posto di lavoro aggiuntivo[4]: esso si limita, al contrario, a riequilibrare gli squilibri originati dal mercato tra le parti del contratto di lavoro, ovverosia a ricondurre effettivamente “in asse” i rapporti tra datore di lavoro e prestatore. Il legislatore che abbia la superba presunzione di incidere sul mercato del lavoro soltanto con i propri provvedimenti normativi (prescindendo da qualsivoglia serio intervento di politica economica) dunque, rischia di essere destinato a precipitare rovinosamente: ed il Jobs Act, da questo punto di vista, pare avvicinarsi al citato mito di Icaro.

Si parla, inoltre, di “contesto occupazionale e produttivo”, con evidente richiamo ai modelli “flessibili” da tempo oggetto di analisi critica da parte di un’attenta e lungimirante dottrina[5]. Una domanda tuttavia sorge spontanea: verso quale modello economico tende un mercato del lavoro fondato sulla flessibilità liquefatta del lavoro, su un paradigma di lavoratore “a resistenza zero”, del tutto sostituibile e fungibile rispetto ad altra forza lavoro?

Siamo lontani anni luce, certamente, dal modello dell’economia della conoscenza (knowledge economy), su cui si fondano i sistemi produttivi sia dei Paesi piu’ avanzati sia di quelli emergenti (e da cui sono ripartiti gli stessi Stati Uniti nella loro recentissima ripresa economica): un’economia in cui hanno un ruolo centrale l’innovazione e la conoscenza, la ricerca e lo sviluppo[6], che può maturare solo attraverso un lavoro professionalmente qualificato e di lungo periodo, e che necessita di un profilo di lavoratore particolarmente formato, con elevata retribuzione e con una peculiare stabilità lavorativa, stabilità che è a sua volta l’unica tangibile garanzia della continuità nel processo di innovazione e di sviluppo. Nell’economia della conoscenza, infatti, l’homo sapiens non può che essere infungibile.

Tutto il contrario di ciò che da tempo –e ancora oggi- viene propinato dal legislatore: il vecchio paradigma economico manifatturiero, fondato sull’homo faber, su una “massa lavorativa di manovra” impersonale, fungibile, scarsamente qualificata, dalle basse retribuzioni e facilmente eliminabile dal circuito produttivo. Si definisce modernità, ma sotto il trucco cela i lineamenti della “prima rivoluzione industriale”. Questa, dunque, è la cornice entro cui si muove il testo governativo in esame che, sia detto con chiarezza, di fatto non introduce nulla di particolarmente nuovo rispetto alle “tendenze” in atto da anni: nessuna cesura galileiana né alcuna rivoluzione copernicana, dunque, ma solo costante e deteriore coerenza nella conclusiva definizione di politiche del lavoro perseguite ormai da tempo [7].

Ciò che colpisce oggi tanto lo studioso quanto l’operatore del diritto è il trovarsi, improvvisamente, dinanzi ad una vera e propria “fissione lavorativa” originata proprio da questo provvedimento: i lavoratori vengono separati in due gruppi differenti, quello di coloro cui ancora si applicano le tutele residue dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (così come modificato dalla Legge 92/2012 cd “Legge Fornero”) e quello di coloro che invece, assunti successivamente all’entrata in vigore del decreto, saranno sottoposti al “nuovo diritto del lavoro”, ormai definitivamente fuoriuscito dallo Statuto dei Lavoratori (art. 1).

E’ facilmente immaginabile che, nel “gioco a somma zero” originato dal Jobs Act, i “nuovi” posti di lavoro altro non saranno se non le “volture” dei vecchi contratti, sollecitate dalla particolare insistenza dei datori di lavoro, alla continua ricerca di rapporti lavorativi economici, dai costi ridotti [8]. Rispetto ad un tale possibile rischio di abuso, nulla si dice né si stabilisce nel decreto governativo.

Ma vi è qualcosa di più radicale e definitivo, nel testo preliminare in esame: l’affermazione, quale principio generale, della monetizzazione di qualsiasi tipo di licenziamento illegittimo, sia esso collettivo [9] o per giustificato motivo oggettivo, sia esso per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo (art. 3 comma 1). Monetizzazione peraltro stabilita – in tutte le ipotesi – in misura inferiore rispetto ai livelli minimi previsti dalla precedente disciplina e che comporta un periodo di tempo -in media- di dieci anni di anzianità di servizio per il raggiungimento dei livelli massimi di indennizzo[10]. Emerge, inoltre, la totale sfiducia nel controllo giurisdizionale di legittimità, con i giudici ormai quasi ridotti ad una mera funzione “contabile” di calcolo delle indennità secondo i rigorosi ed automatici parametri indicati dalla legge.

E la tanto discussa reintegra, che fine ha fatto? E’ una pia illusione. Relegata, con precisa impostazione ideologica, a eccezione del principio generale della “monetizzazione” (art. 3 comma 1 e comma 2, in cui rispettivamente si enunciano le significative espressioni “Salvo quanto disposto dal comma 2”e “esclusivamente nelle ipotesi… in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”), la reintegra viene –con subdola tecnica normativa- di fatto del tutto vanificata con l’introduzione del meccanismo dell’ “inversione dell’onere della prova”.

Nel caso, infatti, dell’odioso licenziamento disciplinare illegittimo per insussistenza totale del fatto materiale contestato[11], sarà il lavoratore a dover direttamente dimostrare in giudizio (l’espressione del legislatore è “direttamente dimostrata in giudizio”, art. 3 comma 2) l’inesistenza del fatto: si richiede con rigore (“direttamente dimostrata”) la prova di un fatto non avvenuto, che si sostanzia dunque in una “diabolica probatio”. In concreto, se ad esempio un datore di lavoro deciderà di licenziare disciplinarmente un lavoratore che sia stato ritenuto – a torto – protagonista di un’insubordinazione nei confronti del proprio superiore, le conseguenze processuali saranno presto tratte: da un lato, il lavoratore che non abbia dato “diretta dimostrazione” dell’inesistenza della circostanza (ovverosia non abbia raggiunto la rigorosa prova dell’inesistenza dell’insubordinazione) non potrà ottenere la reintegra; dall’altro il datore di lavoro che non abbia dato piena prova della sussistenza dell’insubordinazione -e per cui, al di fuori della reintegra, sembrerebbero rimasti inalterati gli originari oneri probatori previsti dall’art. 5 L. 604/1966[12]-, si vedrà costretto a liquidare la somma a titolo di indennizzo prevista dal principio generale della “monetizzazione” dell’art. 3 comma 1.

Un’abile operazione di “travestimento tecnico” che elimina di fatto quasi totalmente la tutela reintegratoria – ad eccezione delle ipotesi “di scuola” del licenziamento discriminatorio, nullo e verbale di cui all’art. 2 –, sebbene non pochi dubbi emergano, in sede di prima lettura, in ordine al possibile eccesso di delega dell’ “inversione dell’onere della prova” che non è minimamente menzionata nel testo della legge n. 183/2014 recante i principi e criteri direttivi. Si tratta di una possibile “bomba ad orologeria” che potrebbe portare, in sede di impugnazione giudiziale dei licenziamenti disciplinari ritenuti illegittimi per insussistenza del fatto, a numerose eccezioni di illegittimità costituzionale della relativa norma.

Nell’opera di definitiva erosione delle ultime tutele rimaste (tutt’altro che “crescenti” a dispetto del titolo del decreto delegato), spicca la sorprendente – e peraltro significativa – eliminazione, nel corpo proprio della tutela reintegratoria per i licenziamenti discriminatori, nulli o verbali (art. 2), del licenziamento per “motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.”, introdotto invece dall’ultima versione dell’art. 18 Stat. Lav. modificata dalla “Legge Fornero”: forse che la permanenza della reintegra nel licenziamento per motivo illecito determinante sarebbe stata d’ostacolo alla libera esplicazione dei mercati e allo sviluppo economico?

Non secondaria, inoltre, è la mancata previsione fra i casi oggetto di reintegra del licenziamento in malattia per violazione dell’art. 2110 secondo comma c.c.: in mancanza di un’espressa previsione di legge in ordine alla nullità dello stesso[13], infatti, sembrerebbe applicabile la sola monetizzazione anche per questo tipo di licenziamenti illegittimi, irrogati in pendenza del cosiddetto periodo di comporto (ovvero di conservazione del posto per malattia).

Il legislatore, invece, sembrerebbe aver considerato i dubbi da più parti sollevati in ordine alla vacuità delle “tutele crescenti” nel caso di anzianità di servizio dei lavoratori coinvolti in lavori appaltati, a causa del frequente cambio delle società appaltatrici (art. 7). Tuttavia la relativa norma, che computa l’anzianità di servizio in relazione all’impiego nell’attività appaltata, non considera e non pone un limite alla possibile elusione: i trasferimenti dei lavoratori con maggiore anzianità operati dalle nuove società appaltatrici, presso nuovi appalti e al solo scopo di “azzerare” l’anzianità e le tutele, in modo da successivamente operare licenziamenti a “basso costo”[14]. Né l’abrogazione della tutela reintegratoria verso il licenziamento per “motivo illecito determinante” è d’aiuto a porre un freno a tale possibile abuso.

Qual è la sorte, invece, del rito Fornero? Abrogato, come auspicava la totalità del mondo degli operatori del diritto (e non solo), con un unico particolare: rimane per tutti coloro che sono stati assunti precedentemente all’entrata in vigore del decreto e godono delle tutele residuali del “vecchio diritto del lavoro”. Una previsione al contempo incentivante e punitiva, per cui a tutele sostanziali ridotte (anche se ipocritamente definite dalla legge “crescenti”) si accompagna una tutela processuale piena e, viceversa, a tutele sostanziali più estese si affianca una tutela processuale ridotta (ovvero il Rito Fornero).

Restano le ultime due nuove misure introdotte dal legislatore delegato per i nuovi assunti: l’offerta di conciliazione (art. 6), che consente al datore di lavoro entro il termine per la definizione stragiudiziale del contenzioso la facoltà di offrire al lavoratore una somma a titolo conciliativo di importo non elevato (da 2 a 18 mensilità) e che ha quale unico punto di appetibilità l’esenzione da qualsivoglia forma di tassazione Irpef o contributiva[15] ed il contratto di ricollocazione, che propone un abbozzo di flexsecurity [16], a totale carico dello Stato.

Si tratta della possibilità, per i disoccupati involontari oggetto di licenziamento collettivo, per giustificato motivo oggettivo o disciplinare illegittimo, di conseguire un voucher contenente la disponibilità economica[17] necessaria alla sottoscrizione, con un’agenzia per il lavoro pubblica o privata,di un contratto di ricollocazione che consenta al lavoratore involontariamente disoccupato di essere assistito nella ricerca del lavoro, nonché di essere formato ed addestrato “secondo le migliori tecniche del settore”, sussistendo al contempo a carico del lavoratore il dovere di cooperazione e di messa a disposizione rispetto alle iniziative dell’agenzia.

Norma che, tuttavia, necessita del decreto attuativo concernente l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per l’occupazione e che, peraltro, appare munita di una dotazione finanziaria tutt’altro che adeguata (art. 11 comma 1). Cosa dire al termine di questa “prima lettura” della seconda fase del Jobs Act, presentato come la più importante “rivoluzione del lavoro” dai tempi dello Statuto dei Lavoratori?

Certamente il panorama che si presenta oggi appare il punto di arrivo del processo di “liquefazione” del lavoro in atto da anni: d’ora in poi tre categorie convivranno, fianco a fianco, negli stessi luoghi ed alle dipendenze degli stessi datori di lavoro. Gli ultimi beneficiari della residuale tutela del lavoro (i “post legge Fornero”, con indennizzi più alti e reintegra effettiva solo nei casi più gravi), gli assunti con i contratti a termine “liquidi”, rinnovabili infinite volte senza alcuna ragione causale[18] e i nuovi assunti a “tutele crescenti”, per i quali la reintegra sarà un miraggio, cui spetteranno indennizzi ridotti anche in caso di licenziamento illegittimo o arbitrario.

Per i datori di lavoro, cui sembra unicamente rivolta l’attenzione del legislatore, si prospetta invece una duplice opzione: assumere i nuovi lavoratori con contratti a tempo determinato a causali dal costo di gestione più elevato (a livello contributivo) ma con cessazione certa e a costo zero o inserire la forza lavoro con contratti a tempo indeterminato flessibili, più economici nella gestione (con notevoli sgravi contributivi e fiscali per i primi tre anni) e con un modesto costo di cessazione rappresentato dai ridotti indennizzi stabiliti nello schema di decreto delegato poc’anzi esaminato. Un lavoro ad “uso e consumo” delle esigenze imprenditoriali, dunque.

L’aumento a livelli esponenziali della flessibilità lavorativa, ormai liquefatta nella forma principale del rapporto di lavoro subordinato sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, comporterà oltre ad un abbassamento del livello qualitativo della forza lavoro – trasformatasi in un’ampia massa impersonale del tutto fungibile e sostituibile secondo le esigenze imprenditoriali del momento – anche una radicale diminuzione delle retribuzioni: tutto il contrario dei nuovi paradigmi lavorativi propri, come testé accennato, dell’economia della conoscenza e dell’innovazione, che pure dovrebbero costituire l’obbiettivo dell’azione governativa.

Coloro che credono ancora nel lavoro come “decisivo fattore di inclusione, biglietto di ingresso indispensabile per chi voglia far parte a pieno titolo della società come l’abbiamo conosciuta oggi”[19], coloro che vedono nel lavoro un “fattore di coesione sociale tra chi nella società lavora”[20], non possono che essere di intralcio alle “magnifiche sorti e progressive” dei nuovi sistemi organizzativi, che sembrano guardare con ammirazione più al modello cinese che a quello americano.

Dinanzi ad un legislatore che si fregia di un “Jobs Act” presentato come epocale, a fronte di commentatori che, a ragione, hanno richiesto più “Jobs Fact”[21], chi scrive non può che limitarsi a registrare, oggi, un unico drammatico dato di fatto: il “Jobs End”, ovvero la fine del lavoro[22] così come costruito in decenni di civiltà del diritto.

NOTE
[1] Art. 1 comma 11 L. 183 della Legge delega 10 dicembre 2014, pubblicata in G.U. il 15 dicembre 2014 ed entrata in vigore il 16 dicembre 2014: “Gli schemi dei decreti legislativi, corredati di relazione tecnica che dia conto della neutralità finanziaria dei medesimi ovvero dei nuovi o maggiori oneri da essi derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura, a seguito di deliberazione preliminare del Consiglio dei Ministri, sono trasmessi alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica perché su di essi siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle Commissioni competenti per materia e profili finanziari. Decorso tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza dei pareri. ………”

[2] Dati Eu Social Jiustice Index 2014.

[3] Art. 11 schema di decreto legislativo, rubricato “contratto di ricollocazione”

[4] Maria Vittoria Ballestrero, Il lavoro e l’eguaglianza nel deserto dei diritti, in La vocazione civile del giurista, a cura di Guido Alpa – Vincenzo Roppo, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 160; Severino Nappi, Jobs Fact – Contro la fabbrica delle regole inutili, Correggio, Wingsbert, 2014.

[5] ex plurimis Luciano Gallino, Vite rinviate – Lo scandalo del lavoro precario, Roma-Bari, La Repubblica-Laterza, 2014; Ignazio Masulli, Chi ha cambiato il mondo?, Roma-Bari, Laterza, 2014; Richard Sennet, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2010.

[6] Ignazio Visco, Investire in conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2014, 2^ ed.; Enrico Moretti, La nuova geografia del Lavoro, MIlano, Mondadori, 2013; Mariana Mazzuccato, Lo Stato Innovatore, Roma-Bari, Laterza, 2014; Giovanni Solimine, Senza Sapere – Il costo dell’ignoranza in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2014;

[7] Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce: contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2007; Maria Vittoria Ballestrero, Il lavoro e l’eguaglianza nel deserto dei diritti, cit.; Domenico Tambasco, Il lavoro non è una merce, in Micromega 8/2014, pp. 65-78; in una prospettiva differente, Diritto del lavoro in trasformazione (a cura di L. Corazza e R. Romei), Bologna, Il Mulino, 2014.

[8] Così Severino Nappi, Jobs Fact, cit., p. 41: “si introducono ulteriori ipotesi di contratto, come quello a tutele crescenti, rivolto ai cosiddetti neoassunti. L’effetto che prevedo è essenzialmente la voltura di tutti, o quasi tutti, i contratti di somministrazione in contratti a tutele crescenti. Insomma i datori di lavoro, dovendo assumere, si limiteranno semplicemente a utilizzare il contratto in quel momento per loro piu’ conveniente su basi di puro opportunismo. Per intenderci: se rendessimo vantaggioso il tempo indeterminato, i nostri imprenditori si sposterebbero immediatamente sul tempo indeterminato. Ma di nuovo lavoro, così, se ne crea zero”.

[9] Per il licenziamento collettivo, disciplinato dall’art. 10, viene mantenuta la reintegra nel solo caso di licenziamento privo di forma scritta mentre, a differenza della precedente disciplina ex art. 18 Stat. Lav. (come modificato dalla l.92/2012, cd legge Fornero), viene abolita la reintegra anche per il caso di violazione dei criteri di scelta ex art. 5 comma 1 L. 223/1991, sostituita dall’indennizzo crescente di cui all’art. 3 comma 1 schema di decreto. Quasi inalterata, come nell’art. 18 Stat. Lav. post Fornero, è la tutela per il caso di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4 comma 12 L. 223/1991, con la sola introduzione dell’indennizzo attenuato e crescente di cui all’art. 3 comma 1 dello schema di decreto.
[10] Questi gli indennizzi: Area ex tutela reale art. 18 Stat. Lav. Vizi sostanziali ex art. 3 comma 1 schema di decreto – da 4 a 24 mensilità in 10 anni: fino a 1 anno (4 mensilità); da 1 anno (6 mensilità); 2 anni (8 mensilità); 3 anni (10 mensilità); 4 anni (12 mensilità); 5 anni (14 mensilità); 6 anni (16 mensilità); 7 anni (18 mensilità); 8 anni (20 mensilità); 9 anni (22 mensilità); 10 anni (24 mensilità); Vizi formali ex art. 4 schema di decreto – da 2 a 12 mensilità in 10 anni: fino a 1 anno (2 mensilità); da 1 anno (3 mensilità); 2 anni (4 mensilità); 3 anni (5 mensilità); 4 anni (6 mensilità); 5 anni (7 mensilità); 6 anni (8 mensilità); 7 anni (9 mensilità); 8 anni (10 mensilità); 9 anni (11 mensilità); 10 anni (12 mensilità); Offerta conciliativa ex art. 6 schema di decreto – da 2 a 18 mensilità in 16 anni: fino a 1 anno (2 mensilità); da 1 anno (3 mensilità); 2 anni (4 mensilità); 3 anni (5 mensilità); 4 anni (6 mensilità); 5 anni (7 mensilità); 6 anni (8 mensilità); 7 anni (9 mensilità); 8 anni (10 mensilità); 9 anni (11 mensilità); 10 anni (12 mensilità); 11 anni (13 mensilità); 12 anni (14 mensilità); 13 anni (15 mensilità); 14 anni (16 mensilità); 15 anni (17 mensilità); 16 anni (18 mensilità). Area tutela obbligatoria ex art. 8 L. 604/1966 Vizi sostanziali ex art. 3 comma 1 schema di decreto – da 2 a 6 mensilità in 4 anni: fino a 1 anno (2 mensilità); da 1 anno (3 mensilità); 2 anni (4 mensilità); 3 anni (5 mensilità); 4 anni (6 mensilità); Vizi formali ex art. 4 schema di decreto – da 1 a 6 mensilità in 10 anni: fino a 1 anno (1 mensilità); da 1 anno (1,5 mensilità); 2 anni (2 mensilità); 3 anni (2,5 mensilità); 4 anni (3 mensilità); 5 anni (3,5 mensilità); 6 anni (4 mensilità); 7 anni (4,5 mensilità); 8 anni (5 mensilità); 9 anni (5,5 mensilità); 10 anni (6 mensilità); Offerta conciliativa ex art. 6 schema di decreto – da 1 a 6 mensilità in 10 anni: fino a 1 anno (1 mensilità); da 1 anno (1,5 mensilità); 2 anni (2 mensilità); 3 anni (2,5 mensilità); 4 anni (3 mensilità); 5 anni (3,5 mensilità); 6 anni (4 mensilità); 7 anni (4,5 mensilità); 8 anni (5 mensilità); 9 anni (5,5 mensilità); 10 anni (6 mensilità);

[11] Anche con riguardo all’ipotesi di licenziamento disciplinare sproporzionato (irrogato cioè per fatti punibili con una sanzione conservativa e non con il licenziamento) lo schema di decreto applica la mera tutela indennitaria, a differenza dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. che prevede comunque, anche dopo la novella Fornero, la tutela della reintegra nel posto di lavoro.

[12] Art. 5 L. 604/1966: “L’onere della prova della sussistenza della giusta o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.

[13] L’art. 2 primo comma dello schema di decreto legislativo fissa la tutela reale tout court per i licenziamenti riconducibili “agli altri casi di nullità espressamente prevista dalla legge”; il termine “espressamente”, assente nell’analoga disposizione dell’art 18 comma 1 Stat. Lav., sembrerebbe prima facie escludere i casi in cui la nullità non sia esplicitamente enunciata dalla legge, qual è il caso della violazione dell’art. 2110 secondo comma c.c., che statuisce come “Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118 c.c., decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità”. Nessuna espressa menzione, infatti, è contenuta nel citato articolo 2110 c.c. in ordine alla nullità per violazione della relativa disposizione.

[14] Problematico, in assenza di un’espressa previsione di legge, appare anche il computo dell’anzianità di servizio nel caso in cui il lavoratore abbia svolto, anteriormente all’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato, un periodo piu’ o meno lungo di lavoro a tempo determinato o con altre forme di contratto con lo stesso datore di lavoro: andrà computato nell’anzianità di servizio? Nulla dice a tal proposito lo scarno testo dell’articolo 7 dello schema di decreto.

[15] Nulla dice, la norma in questione, della possibilità per la parti di concordare eventualmente un indennizzo piu’ elevato rispetto a quello previsto dalla legge: in tale ipotesi, le esenzioni dalla tassazione Irpef e dagli oneri contributivi varranno ancora per la quota coincidente con l’importo conciliativo previsto ex lege, o sarà invece tutto soggetto a tassazione e a contribuzione?

[16] Certamente si tratta di un embrione di flexsecurity di molto lontano dagli obbiettivi di uno dei suoi principali ispiratori, Pietro Ichino che, nel suo “Inchiesta sul lavoro”, Milano, Mondadori, 2011, p. 116 e ss., pone gli oneri economici del progetto di contratto di ricollocazione anche in capo all’impresa che, licenziando, provoca l’esternalità negativa rappresentata da un incremento della forza lavoro in stato di disoccupazione. Nello schema di decreto delegato, invece, le imprese appaiono totalmente
deresponsabilizzate nel processo di ricollocamente del lavoratore.

[17] Ammontare “proporzionato in relazione al profilo personale di occupabilità di cui al comma 2”, come prescritto dall’art. 11 ultimo comma dello schema di decreto legislativo.

[18] Si tratta dei contratti a termine acausali introdotti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 34 (cd Decreto Poletti), convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78, per cui si rimanda all’ampia trattazione di Santoro- Passarelli, Jobs act e contratto a tempo determinato, 2014, Torino, Giappichelli.

[19] Angelo Pichierri, in Costituzione e Lavoro oggi (a cura di M. Cavino e I.Massa Pinto), Bologna, il Mulino, 2013, p. 8 e ss.

[20] Angelo Pichierri, cit., p. 9;

[21] Severino Nappi, Jobs Fact, cit.

[22] Risuona, pur a decenni di distanza, l’ammonimento di Luigi Mengoni, che in questo modo metteva in guardia: “Ma il capitalismo industriale deve guardarsi dall’errore di pensarsi esclusivamente come un sistema economico, dimenticando che in questo sistema “l’organizzazione del lavoro assurge a problema dell’essere umano”. La riduzione alla pura dimensione economica dà spazio alla valenza nichilistica latente nella forma di pensiero in cui l’industrialismo è ambientato, mentre occorre assecondare e rafforzare l’altra valenza, che rende lo scientismo tecnologico disponibile all’umanesimo costruttivo”, L’enciclica Laborem exercens e la cultura industriale, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1982, pp. 595-616, ora in Il Lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, a cura di Mario Napoli, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 59-60.

 

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