Scontro di Civiltà e Fine della storia. Riflessioni su Occidente e Islam [di Giuseppe Panissidi]
MicroMega 14 gennaio 2015. La tentazione di apporre un ‘assioma di chiusura’ alla storia è un vezzo relativamente recente, sconosciuto all’antichità e alla prima modernità. Per primo, ci prova G. W. F. Hegel, nel 1821. Di fronte al “diritto assoluto” di una civiltà dominante, scrive il grande teorico dell’idealismo classico tedesco, “gli spiriti degli altri popoli sono senza diritto, ed essi, come coloro la cui epoca è passata, non contano più nella storia universale”. La formazione sociale moderna, basata sul modello di produzione con capitale, e lo Stato liberale generato dalla Rivoluzione francese, scandiscono la “fine della storia”. Venticinque anni fa, prima nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, dopo nel noto saggio del 1992, Francis Fukuyama ripropone la tesi. L’avvento della liberal-democrazia, sullo sfondo dei formidabili sviluppi cumulativi e direzionali della scienza e della tecnologia, e l’esito epocale della hegeliana “lotta per il riconoscimento”, reciproco ed eguale – ancorché reinterpretata – in contesto democratico, rappresentano secondo Fukuyama, la migliore soluzione possibile, per il “migliore dei mondi possibili”. Al riguardo, già A. Schopenhauer osservava, quasi divertito, che da un siffatto convincimento traluce un forte pessimismo: “Se questo è il miglior mondo possibile…”. In ogni caso, a giudizio di Fukuyama, ‘sembra’ di ‘potere’ escludere concrete possibilità di ulteriori mutamenti sostanziali entro lo scenario delle compagini politico-istituzionali degli Stati. Se non ché, all’autore bastano pochi anni per un serio ripensamento e, nel 1996, in un nuovo saggio intorno al tema della “Fiducia”, sul medesimo sfondo del crollo del marxismo, osserva preoccupato che la crisi dello stato sociale e le falle profonde e scoperte mostrate dal liberismo, sollevano interrogativi inediti che esigono un rapido riorientamento dello sguardo. La crisi irreversibile delle società basate sull’opzione individualistica, egoistica e non dominabile suggerisce, a suo avviso, che bisogna mettere a frutto il maggior capitale sociale oggi disponibile, la fiducia. Non una forza irrazionale, tuttavia, come pure s’è inteso, bensì extra-razionale, intimamente nutrita di energia morale e vitalità culturale, dunque idonea al governo di società complesse, previo il razionale controllo delle modalità proprie del comportamento economico. La storia, insomma, come spesso accade, si mostra refrattaria e non ci sta e, con inesauribile inventiva, riapre di nuovo giochi e frontiere, quantunque spesso nella forma del “mattatoio” di hegeliana memoria. Non siamo lontani dall’aspro giudizio di W. von Goethe: “In ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile. Gli uomini sono stati sempre preoccupati e angosciati, si sono tormentati e torturati reciprocamente, hanno reso difficile a sé ed agli altri quel po’ di vita loro concesso e non sono stati capaci di apprezzare e godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell’esistenza, loro offerta da quella bellezza… Soltanto pe pochi la vita è stata comoda e piacevole. I più, dopo aver sperimentato il gioco della vita per un certo tempo, hanno preferito andarsene piuttosto che cominciare di nuovo. Ciò che offriva ed offre loro ancora un attaccamento alla vita era ed è la paura della morte. Così è, così è stato, così anche rimarrà. Questo è dopotutto il destino degli uomini”. Ai nostri chiari di luna, pare che il nome nuovo del dramma universale sia “Islam”, odierna riedizione ‘anastatica’ della famigerata “polveriera balcanica” dell’intricato crocevia europeo tra ‘800 e ‘900. In effetti, abbiamo più di un problema. Le radici. Com’è noto, nei dizionari politico-culturali dell’Islam manca il termine ‘persona’, una categoria centrale della tradizione culturale occidentale di antica origine stoica, nel II secolo a. C. L’individuo-persona – lemma ambivalente, secondo il Marx critico del cristianesimo, in quanto anche ipostasi ‘fondamentalista’, rispetto all’idea aristotelica naturale-sociale dell’uomo “ente generico”, cioè membro della sua specie – è soggetto autonomo investito di valori e diritti inalienabili, perché non conferiti e, perciò, indipendenti dall’autorità civile o religiosa. Principi universali, in quanto validi erga omnes. L’individuo islamico, invece, è “Fard”, portatore di doveri individuali e comunitari, quale membro organico della “Umma”, la comunità dei credenti. Né può attribuirsi al caso che molti Paesi a maggioranza islamica disconoscano la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, in quanto intrinsecamente correlata all’immagine occidentale della ragione e dell’uomo, con esclusione, almeno formale, della “sottomissione” alla legge divina. E’ anche vero, tuttavia, che grandi Paesi come il Pakistan e il Sudan, l’Arabia Saudita e l’Iran, hanno proclamato nel 1981 la propria “Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo”, proprio a Parigi, luogo del recente attentato. Ne discende che nell’Islam non c’è posto per quel nucleo di valori essenziali che noi definiamo “diritto/i della persona”, il diritto coincidendo in toto con la “Umma”, il principio della comunità, dentro la quale soltanto l’individuo può godere, appunto, di diritti e doveri. Tanto vero che, in caso di abbandono della sua religione per qualsiasi ragione, egli perde ogni diritto e rischia persino di essere giustiziato. Sola fonte dei diritti nei paesi a maggioranza islamica è la comunità, sovrano garante dei diritti e dei doveri concessi o negati dal Corano e dalla Legge islamica, la “šarīʿa”. Il preambolo introduce direttamente il nostro tema di riflessione. Il Concilio Vaticano II ha ribadito e statuito, con maggiore e conclusiva chiarezza, che la missione propria della Chiesa di Cristo non è di ordine politico, né economico-sociale, ma bensì di ordine religioso. Così, tra l’altro, recita la costituzione pastorale del 1965 “Gaudium et Spes”, lungo la via che si snoda dal vangelo di Matteo a Giovanni e all’anonima “Lettera a Diogneto” della seconda metà del secondo secolo. La condizione dei cristiani li configura secondo lo status tipico degli “stranieri”, ontologicamente ‘immigrati’ e solo provvisoriamente coinvolti, in quanto cittadini, nelle comunità politiche di appartenenza. Proviamo a volgere un rapido sguardo indietro. Concluso il lungo processo di disgregazione del plurisecolare califfato abbaside, nel secolo XIII, nel fuoco della formazione degli Stati nazionali dopo i secoli XI-XII, sulle rovine dell’impero ottomano, concausa decisiva del primo conflitto mondiale, il modello nazionale occidentale, ispirando la formazione di nuovi Stati nel mondo islamico, suscitava la forte reazione dei movimenti islamici più radicali. Obiettivo dichiarato il recupero del fondamentale principio dell’unità tra “dīn”, la religione, e “dunya”, lo Stato. Con pochissime eccezioni, di cui la più rilevante, quella turca vide l’abolizione del sultanato e del califfato ottomano, di un’ampia gamma di precetti islamici, l’adozione del calendario e dell’alfabeto occidentale, la proibizione dell’uso del velo. Una vera e propria de-islamizzazione. Se non ché, tra gli anni ’20 e ’40, agguerriti ideologi del fondamentalismo ribadiscono il principio etico della inscindibilità di religione e Stato: il credente deve agire in accordo con i dettami della “rivelazione”, in quanto “sottomesso” alla legge islamica, dovunque si trovi, in vista del premio ultraterreno del paradiso. Perciò, deve anche uccidere, se opportuno e necessario, in conformità al Corano: “Chi uccide un’anima senza giustificazione – come rappresaglia per omicidio o per aver causato corruzione sulla terra – sarà come se uccidesse tutto il genere umano, perché non vi è alcuna differenza tra una vita e un’altra”. I combattenti dell’Islam ritengono di essere “giustificati”, evidentemente, anche ad eliminarsi reciprocamente con un’intensità e una ferocia addirittura più virulenta di quelle che riservano all’Occidente. Lotte furibonde per il potere dentro l’immenso scacchiere geo-politico dell’Islam. Malgrado ciò, il Catechismo della Chiesa Cattolica non rinuncia ad esaltare la comune fede in un Dio unico, con queste significative parole: “Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale”. Autentico controcanto del Corano: “In verità, coloro che credono, siano essi giudei, nazareni o sabei, tutti coloro che credono in Allah e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti”. Le ragioni del conflitto non sembrano insuperabili: due totalitarismi ideologico-religiosi ‘in confrontation’ nello scacchiere geo-politico universale: uno dei più micidiali profili della “prossimità devastante” tra l’Occidente e l’Islam, di cui parla Zygmunt Bauman, se anche con differenti intenzioni. Complicità, e connesse massicce forniture di armi, da parte del blocco militare-industriale occidentale a parte. Non “guerra dei mondi”, allora, o “scontro di civiltà”, bensì liti cruente entro un “gruppo di famiglia in un interno”. La famiglia, vera e massima ‘cellula’ patogena, intimamente lacerata più di quanto essa non abbia ragione di confliggere, vedi caso, con lo scintoismo o il confucianesimo, semplici pratiche culturali e istituzionali, più che religioni. Certo è che, tramontato – si spera e si prevede – il tempo delle scomuniche ecumeniche, non rimane neanche la possibilità di chiamare gli islamici, in guisa onomatopeica e sprezzante, “bar-ba-ri”, balbuzienti, come la classicità greca chiamava i ‘parlanti’ del potente impero persiano, in ragione della loro lingua che essa non comprendeva e rispetto alla quale nutriva un malcelato disprezzo. L’Islam si spiega chiaro e forte, e le “guerre islamiche” lasciano supporre una durata ben più lunga e cruenta del ventennio delle “guerre persiane” del V secolo a. C. No, il fosco orizzonte non lascia intravvedere altre, gloriose e conclusive, battaglie di Maratona e Salamina, Platea e Micale, dopo le Termopili e l’esito neutro di Capo Artemisio. Di più. Ci mancano Erodoto e Tucidide, con tutto il rispetto per Huntington. Inoltre, ci rendiamo sempre meglio conto che il principio strategico classico del “divide et impera” è (era) roba per gente seria, non per quanti, scindendo l’unità del binomio, focalizzano sulla sola pratica del “dividere”, in sconnessione dall’”imperium”, provocando immani tragedie a ripetizione. Un breve passo indietro. A giudizio di Samuel P. Huntington, la fine della “guerra fredda”, determinata dalla crisi e dissoluzione dell’Unione Sovietica, anziché generare un mondo più unito ed armonico, ha fatto riemergere linee di profonda divisione tra quelle formazioni di lunga durata che, con Fernand Braudel, siamo soliti chiamare civiltà. Occidentale, Cristiana orientale-ortodossa, Latino-americana, pur distinta da quella occidentale, Islamica, Indù, Cinese, Giapponese, Buddista, Africana. “Linee di confine” destinate a dividere il mondo futuro secondo logiche di collaborazione fra simili ed ostilità tra dissimili. Epperò, anche linee che, “a torto o a ragione” – per citare il titolo del (forse) più bel pezzo di cinema sul nazismo – l’Occidente attraversa regolarmente per penetrare nel cuore di altri mondi culturali, e che questi ultimi varcano, con altrettanta disinvoltura, non sempre dettata dalla necessità, per approdare nel nostro. Incomprensibile, invece, perché auto-contraddittoria la posizione di quanti, fuori dallo stesso canone analitico di Huntington, aspirano a una sorta di osmosi, più che di commistione, a un Occidente “più musulmano”, cioè più bellicoso, meno laico e relativista. Che non dipenda dal fatto intrigante che il termine arabo “Islam”, “sottomissione”, deriva da una parola che significa “pace” e che, di converso, “crociata”, oltre a denotare la Croce salvifica della pace nella giustizia, ha dispiegato l’atroce significato di “guerra” sul terreno concreto della storia? No problem, come si dice. Come sopra s’è visto, infatti, tra Islam e Cristianesimo, al netto delle dis-somiglianze, non sembrano esistere divaricazioni ontologicamente incomponibili. E chissà se qualche (gratuita) vignetta in meno – inconcussa la libertà di critica e di satira – non possa proficuamente contribuire a produrre l’agognata soluzione. Al riguardo, è forse il caso di accennare che, all’inizio del Novecento, un celebre filosofo della storia, Oswald Spengler, in “Der Untergang des Abendlandes” (1918), “Il tramonto dell’Occidente”, avanzava una tesi analoga, individuando nel denaro la nuova tirannia del mondo contemporaneo, “die Macht der Zivilisation”, la potenza della civilizzazione. Una civilizzazione che si era appena verificata e saldata nel fuoco della carneficina di popoli della Grande Guerra. Cosicché, più che di de-occidentalizzazione del mondo, legata alla crescita demografica di alcune delle altre civiltà, come quella islamica, per l’appunto, oltre che, in misura ancora maggiore all’imperiosa crescita economica della Cina, dell’India e del Sud-Est asiatico, bisognerebbe guardare ai profili fondamentali della relazione tra Islam e Cristianesimo. Se, infatti, è vero, come scrive Huntington, che “via via che il processo della modernizzazione (tecnologica e produttiva) aumenta, il tasso di occidentalizzazione si riduce e la cultura autoctona torna ad emergere”, è altrettanto vero che “l’ulteriore modernizzazione finisce con l’alterare gli equilibri di potere tra l’Occidente e la società non occidentale, alimenta il potere e l’autostima di quelle società e rafforza in esse il senso di appartenenza alla propria cultura”. E, pertanto, l’Europa occidentale e gli Stati Uniti debbono rendersi conto di essere “una fra le civiltà” e non “la” civiltà, e rinunciare al mito ormai logoro di una civiltà universale, basata sulla democrazia e i diritti umani, e a ogni interferenza, in tale materia, con altre civiltà. Debbono semplicemente coltivare la propria identità e i propri valori, con la consapevolezza che essi non possono essere universalmente condivisi. Monoteismo a parte, naturalmente. E non è una disfatta. Del resto, basta applicare un’ombra dell’ideologia fondamentalista, prendere, ossia, a calco il sintagma politico-culturale “dialogo inter-culturale”. In latino, “inter” significa “tra”, l’antipode dei vari procedimenti di “reductio ad unum”. Se, infatti, “modernizzazione significa industrializzazione, urbanizzazione, maggiori livelli di alfabetizzazione, istruzione, ricchezza e mobilità sociale, nonché strutture occupazionali più complesse e diversificate”; se, insomma, essa denota il “prodotto della straordinaria espansione delle conoscenze tecniche e scientifiche iniziata a partire dal XVIII secolo e che ha permesso e plasmare il proprio ambiente in modi completamente nuovi”, allora i conti non tornano. Perché la modernizzazione, così intesa, è nata in occidente, e “l’Occidente – Huntington stesso argomenta – era Occidente prima di essere moderno”. Di conseguenza, esiste un quadro di valori occidentali relativamente indipendenti dalla modernizzazione, e perciò “non solo storicamente estranei nel loro insieme alle altre civiltà, ma anche destinati a rimanere tali”. Questi: la separazione fra autorità spirituale e temporale, assente nelle tradizioni dell’Oriente ortodosso, dell’Islam, della Cina e del Giappone, presente – invece – in quella indù; lo stato di diritto, ossia il dominio della legge contro la primazia arbitraria delle autorità al potere; il pluralismo sociale; i corpi rappresentativi, nati dal pluralismo sociale e sviluppatisi nella forma dei moderni parlamenti; e, non da ultimo, l’individualismo. L’idea stessa, di matrice hegeliana, di una civiltà che si afferma sulle altre come universale, supremo sigillo della Storia, è quindi, secondo Huntington, del tutto sbagliata, perché frutto di una visione del mondo schematica e ancora legata ai meccanismi della guerra fredda. Ragion per cui, se prima vi erano due modelli che si fronteggiavano, ora, archiviato il comunismo, l’intero campo sembrerebbe aperto all’acquisizione del modello liberaldemocratico occidentale. Così non è. Su un punto, infatti, Fukuyama vede con innegabile lucidità. Il rifiuto di “dire cinesemente sempre sì di fronte alla potenza della storia” (Nietzsche), si coniuga con la necessità di “spazzolare la storia contropelo”, di sottrarsi alla ‘naturale’ tendenza a “nuotare con la corrente“, come si esprimono W. Benjamin e il marxismo contemporaneo. La ricca complessità della relazione umana con i processi storici, insomma, non può venire ‘smussata’ ed espunta dallo spazio aperto della visione problematica e critica, confliggente con lo “Zeitgeist”, lo spirito del tempo della supina acquiescenza al dato. Non a caso, nell’analisi di Huntington, assumono un ruolo cruciale le vicende degli stati moderni, sempre meno adatti a definire il nuovo assetto mondiale caratterizzato dalla ‘rinascita delle civiltà’. In breve: lungo “sentieri interrotti” la marcia della storia prosegue. Se, infatti, pare irrinunciabile la presenza di uno stato guida all’interno di ogni singola civiltà – come gli U.S.A. nel quadro della civiltà Occidentale, la Cina nel caso della civiltà Sinica, etc. – è altrettanto evidente che la divisione in stati ha lasciato il posto ad una divisione per aree culturali con alleanze semplicemente impensabili fino a pochi decenni fa. Il conflitto, secondo Huntington, deflagra ogniqualvolta in cui lo stato-guida di una civiltà interferisca negli affari di un altro stato-guida e delle sue relazioni con un terzo stato. Un’intromissione inaccettabile, foriera di conflitti su scala mondiale tra le diverse civiltà. Gli stati guida delle singole civiltà debbono, invece, osservare due regole elementari: la “regola dell’astensione“, concernente l’impegno degli stati-guida a non intervenire nei conflitti interni ad altre civiltà, e la “regola della mediazione congiunta” secondo cui la funzione mediatrice nei conflitti tra stati compete ai rispettivi stati guida. Ma la fonte di conflitto principale non sarà né ideologica, né economica, sarà invece “legata alla cultura”, alle “linee di faglia tra civiltà”. E tuttavia, Huntington si rivela lucidamente consapevole del fatto che, né la civiltà occidentale oggi ancora (per quanto tempo?) egemone, né tanto meno il suo “stato guida”, gli U.S.A., sono realmente disponibili e capaci di condividere la loro posizione privilegiata con altre civiltà o con altri stati-guida. Bisogna, però, anche che i discepoli di Huntington si chiedano se, alla base delle rivendicazioni, violente o no, delle civiltà non occidentali, oltre alla voglia di rivalsa storico-culturale, non vi sia anche lo spirito della reazione alla globalizzazione neoliberista e alle disuguaglianze politiche ed economico-sociali che essa scatena. Al riparo della pretesa “superiorità” occidentale, a suo tempo farneticata, tra gli altri, anche da un nostro ex premier. In effetti, ‘loro’ non hanno avuto Shakespeare e Mozart, Newton e Leonardo da Vinci. E neppure Berlusconi. “La convinzione occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è falsa, è immorale, è pericolosa”, scrive Huntington, poiché “l’imperialismo è la conseguenza logica e necessaria dell’universalismo”. L’errore più nefasto commesso dall’Occidente è quello di dimenticare spesso ciò che i non occidentali non dimenticano mai: “non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata”. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Per limitarsi all’ambito dell’imperialismo e del colonialismo moderno, è sufficiente pensare all’ottocentesca “diplomazia delle cannoniere”: o aprite i porti o vi radiamo al suolo. Non sembra l’ideologia estemporanea di un “conservatore”, fonte di legittimazione di posizioni ‘culturali’ faziose e strumentali. Di certo, fa pensare più a Joseph Conrad, che a Oriana Fallaci. Fuori da pur cogenti dinamiche pulsionali, pertanto, la più fredda prospettiva dell’osservatorio storico rivela che è puramente apparente la contraddizione, spesso sottolineata, secondo cui taluni segmenti dell’antagonismo islamico d’ispirazione integralista agirebbero in contrasto con la “paideia” occidentale che li nutre. Se, infatti, il flagello della svastica è storicamente concluso, bisognerà anche considerare con la necessaria attenzione la preoccupazione di uno dei più autorevoli storici del nazismo, George Mosse, secondo il quale “il nazismo è un problema del futuro”. Chiunque può essere Eichmann. In proposito, Hannah Arendt afferma: “La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua <banalità>… solo il bene ha profondità e può essere integrale”. E tuttavia, questi sedicenti combattenti della guerra tra Occidente ed Islam continuano a mostrare scarsa attenzione alla complessità storica, sfida vivente ad ogni forma di riduzionismo. Perché, a ben guardare, imbracciano grandi idee d’indole storico-culturale per usarle come armi improprie, sebbene, poi, esse siano in (sostanziale) continuità culturale con quelle di un’intera, grande civiltà abitata da più di un miliardo e mezzo di uomini, di cui soltanto il 18% nei Paesi arabi. Questo il limite intrinseco dell’uso di etichette convenzionali e poco perspicue, come Islam e Occidente, utili soltanto a sviare e confondere la mente di quanti cercano, anche sul piano istituzionale, di mistificare e dare un senso all’entropia evocata da Goethe, e che non si lascia facilmente rimuovere. Vero è che la ‘riapertura della storia’ mostra, ormai da tempo, un Islam non più ai margini dell’Occidente, bensì al centro, per quanto l’immaginario collettivo non abbia mai smesso di coltivare la memoria delle prime grandi conquiste arabo-islamiche del settimo secolo. In uno dei capisaldi della storiografia medievale, “Maometto e Carlo Magno”, nel 1939, Henri Perenne ricorda come proprio l’impetuosa espansione islamica originaria, spezzando definitivamente l’unità politica e culturale romano-cristiana del Mediterraneo, aprisse la via alle grandi civiltà del nord: la potente monarchia franca e la Germania. La nuova missione storica, in quella cruciale emergenza, implicava la strenua difesa dell’Occidente, cui, tuttavia – la mente corre all’hegeliana “List der Vernunft”, l’astuzia della ragione – proprio dal ricorso all’immensa ricchezza e agli strumenti della grande cultura islamica, scientifica e umanistica, giunse un contributo determinante. Hic Rhodus, hic saltus. L’esercizio dello sguardo mette a fuoco e in tensione religioni e politica, Stati e comunità, valori e disvalori, senza tuttavia perdere mai di vista il nodo strategico della situazione, la vera posta in gioco. Di Civiltà, per l’appunto. Vi sono società armate di potere e società carenti di potere, usi profondamente diseguali delle risorse della ragione, ancor prima che di quelle materiali, e principi universali di giustizia e ingiustizia che debbono promuovere una nuova consapevolezza, il più possibile scevra di quei vizi che Marx felicemente considerava “astrazioni indeterminate”, come sconnesse dalle radici e dal significato effettuale delle cose. Sotto tale specifico profilo, l’idea dello “scontro di civiltà” ha tutta l’aria di una sapida boutade, interfaccia stridente dell’illusione ricorrente della “fine della storia”. Surrogati corrivi, entrambi, del default dell’intelligenza critica rispetto a un mondo ormai, nel bene e nel male, irrimediabilmente globalizzato e, pertanto, difficile da esorcizzare. Il compito ineludibile del nostro ‘comune’ presente contempla la necessità inderogabile di un’attenta riconsiderazione della possibilità di un’’altra storia’. Che potremmo anche concettualizzare, in termini marxiani e non più marxisti, come “fine della preistoria”. |