La Sardegna e l’occidente: una check-list [di Maurizio Onnis]
Per delineare le tappe dell’occidentalizzazione della Sardegna, possiamo adottare un utile inversione del punto di vista. Anziché stare nei nostri panni, quelli del sardo che cerca faticosamente le tracce della modernità nella propria storia più recente, indossiamo i panni di un qualsiasi giovane consulente dell’Unione Europea, cui tocchi valutare non il nostro grado di aderenza ai parametri economici e finanziari della comunità (questo è un compito spettante agli advisor più esperti), ma ai valori e agli istituti che rappresentano l’Occidente contemporaneo. La Sardegna ha infatti segretamente tastato il terreno in vista della sua possibile aggregazione al parlamento di Strasburgo da Stato indipendente. Fingiamo che il giovane non sia un burocrate freddo, come solitamente si dipingono quelli di stanza a Bruxelles: conosce la nostra storia, ci apprezza e il suo è un giudizio equo. La sua analisi procederà lungo tre direttrici – socio-culturale, economica, istituzionale – e lui, avanzando, spunterà una specie di check-list, che lo aiuterà a tirare un bilancio finale. Occidentalizzazione socio-culturale vuol dire un mucchio di cose. Vuol dire prima di tutto cristianesimo, ma questa è la voce che meno può aiutare l’indagine. L’appartenenza a Cristo è sicuramente una garanzia indispensabile di fedeltà alla visione del mondo professata dall’Occidente, ma in epoca di secolarizzazione e paganesimo dei consumi finisce in fondo alla check-list. Altre voci in questo campo sono più importanti: l’alfabetizzazione di massa, ad esempio, e il grado d’istruzione. Già qui la Sardegna falla. Siamo entrati in Occidente attraverso la porta della scuola nella seconda metà del Novecento, ma l’alto grado di dispersione, il basso numero di diplomati e laureati, la bassa incidenza dei titoli di studio tecnici e scientifici, la scarsissima conoscenza delle lingue straniere non ci aiutano a salire la china: sedutici all’ovest, rimaniamo parecchio in disparte. Il nostro consulente vedrà con soddisfazione all’opera un gran numero di associazioni, segno di vivacità socio-culturale, e apprezzerà le dinamiche del mondo editoriale e della lettura. Giudicherà un po’ basso il livello del dibattito pubblico, ma lo troverà nel complesso libero: e questo è un carattere propriamente occidentale. Si stupirà per la scarsa diffusione istituzionale del sardo, meno protetto dai suoi stessi parlanti di quanto accada tra altre minoranze d’Europa, ma valuterà l’italofonia come un dato storico acquisito del nostro legame con il sistema degli Stati-nazione. Da ultimo, valuterà molto bene l’abbondanza e la peculiarità delle tradizioni interne, sopravvissute con forza all’omologazione culturale globalizzante degli ultimi decenni, e ammirerà stupito il patrimonio archeologico dell’isola, pronto per una nuova valorizzazione, in studi e turismo. Inevitabilmente, l’inviato di Bruxelles aggrotterà la fronte vagliando il nostro profilo economico. Noterà che lo sforzo di aggregazione della Sardegna al capitalismo occidentale disegna una linea continua, tesa dal 1820 al presente. E nella check-list annoterà, una dopo l’altra, la legge sulle chiudende, l’abolizione della giurisdizione feudale, l’abolizione degli usi comunitari della terra, la costruzione di strade e ferrovie, fino alle leggi speciali varate tra Ottocento e Novecento, la legge del miliardo e le bonifiche mussoliniane, i Piani di Rinascita e l’industrializzazione dell’ultimo dopoguerra. Tutti provvedimenti tesi a fare della Sardegna una terra d’impresa. E non potrà non tenere conto che questo progetto a lungo termine dà ai sardi oggi un reddito pro capite uguale all’80% della medie UE: un risultato soddisfacente. Poi però, spostando lo sguardo al terreno, capirà che l’inclusione dell’isola nel sistema economico occidentale è lontana dal completarsi. Vedrà che mancano ancora molte infrastrutture necessarie allo sviluppo, che la dimensione delle imprese è assai lontana dalla media delle imprese continentali, che il sistema creditizio è asfittico, che la borghesia degli affari è debole, che il livello dei servizi pubblici e privati non è eccelso, che pastorizia e agricoltura abbisognano di una bella dose di modernizzazione. Guardando dall’alto le cose, sarà colpito soprattutto da tre anomalie. La prima è la mancanza, nel capitalismo sardo, di una diffusa propensione al rischio, a puntare forte, a ragionare in grande e verso l’esterno dell’isola. La seconda è la sua caratteristica di capitalismo assistito, così come è sempre stato, al principio dallo Stato e poi dallo Stato e dalla Regione. La terza è la preponderanza degli interessi e dei modelli economici di Roma su quelli dei sardi. Tanto che nel suo rapporto il consulente dell’Unione Europea dovrà inserire una dichiarazione piena di dubbi: l’occidentalizzazione economica della Sardegna è certa, ma gli esiti di questo processo sono imprevedibili. L’occidentalizzazione istituzionale ha operato in Età contemporanea con parametri precisi e il nostro visitatore non avrà difficoltà a formarsi un giudizio. A metà Ottocento, la Sardegna si “fuse perfettamente” con una monarchia continentale, appena prima che questa abbracciasse il costituzionalismo. I sardi ebbero così da allora, e da allora hanno mantenuto, il diritto di voto, attraverso il quale eleggono i propri rappresentanti parlamentari e possono essere eletti nelle istituzioni. I loro diritti civili sono parimenti rispettati: proprietà, espressione, giusto processo, confessione religiosa, associazionismo in partiti e sindacati e così via. La nostra isola è dunque pienamente nell’Occidente liberale. Certo, la qualità di questi diritti farà riflettere il consulente di Bruxelles: lui sa bene, ad esempio, che la diffusione di clientelismo e corruzione in politica e affari allontanano dall’ovest, così come l’alto grado di concentrazione proprietaria nei mezzi d’informazione. Ma nel complesso non potrà che dare la sua approvazione. Altri popoli, fuori dall’Occidente, vivono infatti in questo campo situazioni assai peggiori della nostra. I sardi non soffrono dittature e limitazioni dei diritti politici, possono dire liberamente quello che pensano, possono professare la fede che preferiscono. Sono libertà impagabili e, fosse solo per questo, l’Unione Europea accoglierebbe oggi stesso una Sardegna indipendente. Quale sarà il bilancio finale dell’inviato comunitario? È presto detto. Riferirà ai suoi superiori che la Sardegna è a buon diritto da considerare Occidente, ma che purtroppo quest’occidentalizzazione è stata tardiva e presenta ancora molte pecche. I sardi gli sembreranno capaci di controllare i palazzi delle istituzioni e la società gli apparirà in crescita, ma affermerà che lo sviluppo economico dell’isola è incerto, per mancanza di protagonismo e d’idee chiare prima di tutto tra gli stessi sardi. Incerto in assenza, soprattutto, di fondamentali capitali esteri: su questa strada, in altre parole, una Sardegna indipendente oggi verrebbe irreggimentata, nell’ordine, dalla Banca centrale europea, dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. Ora torniamo a noi stessi. Queste sono state le tappe della nostra occidentalizzazione e non c’è dubbio che ci sentiamo tutti inseriti, storicamente, nel sistema di valori e istituzioni dell’Occidente contemporaneo. Abbracciarlo e sentirlo nostro sono però un’altra questione. Allo stesso modo, altro è fare una valutazione accurata e priva di pregiudizi di ciò che abbiamo guadagnato o perso nel passaggio. Certamente è sbagliato credere che quanto non ha funzionato e ancora non funziona nella transizione della Sardegna a ovest dipenda solo da noi o dalle imposizioni di Roma. È difficile pensare che duecento anni di capitalismo abbiano prodotto una striminzita classe degli affari per pura incapacità dei sardi o protervia italiana. Ed è stupido far passare il nostro tenace localismo come “chiaro” segno della resistenza alla modernità unificante. Nelle nostre radici c’è palesemente qualcosa che ci porta lontano dal modello impostoci negli ultimi duecento anni. Anche qui, in sostanza, è meglio rovesciare il punto di vista. Chiediamoci quanto il paradigma occidentale risponda alle nostre inclinazioni, perché da questa domanda parte un progetto nuovo: individuare cos’è possibile fare per modificare il modello e sfruttarlo a nostro vantaggio. Confrontarci con i paradigmi dell’Occidente è l’unica maniera per superare l’asfittica opposizione Sardegna-Italia e pensare a una Sardegna davvero nuova. Siamo già stati nella storia ideatori e portatori di modelli civili originali: possiamo tornare a esserlo. |