Meglio una sola camera [di Federico Palomba ]
Ora che è ripreso alla Camera l’iter sulla riforma costituzionale sospinta da Renzi, che riguarda tutti noi è opportuno fare alcune riflessioni, soprattutto sulla modifica del Senato. E’ acquisito che i sistemi disfunzionali si affrontano producendo cambiamento. Nei sistemi politici i cambiamenti sono chiamati riforme; e sono definiti riformisti coloro che ritengono necessario produrli, all’interno di un perimetro di rispetto dell’assetto democratico. Ma cambiamento e riforma sono termini usati da tutti gli attori del sistema politico di qualsiasi orientamento, che li brandiscono pensando così di attirare i consensi degli scontenti. Tale approccio spurio contribuisce a determinare confusione: di modo che è necessario andare oltre le parole per approfondire il merito con un occhio rivolto alla cultura politica di chi declama le riforme e l’altro al loro effettivo contenuto. In sostanza, non essendo tutti i cambiamenti condivisibili e tutte le riforme apprezzabili, essi restano definiti per come sono declinati e per come sono attuati. La recente storia politica dell’Italia è densa di cambiamenti non attuati, di modifiche sbagliate, presto spazzate via e di riforme mancate, benché proclamate. Esempi per tutti: la riforma liberale, sbandierata da Berlusconi, non ha mai visto la luce, mentre quelle attuate sotto quella bandiera erano l’opposto; la riforma della legge elettorale è ibernata perché irretita nelle contraddizioni rispetto alle aspettative e alla funzione strumentale che le si vorrebbe attribuire (si vedano il voto di preferenza, la soglia di sbarramento e il premio di maggioranza, aspetti censurati dalla Corte Costituzionale nella versione precedente ma pare riproposti nella successiva); la riforma Fornero sul lavoro, avversata in Parlamento da pochissimi ma approvata da tutti gli altri, che non trova oggi più nessuno che la difenda; la stessa cosa deve dirsi per la legge anticorruzione, di cui ancora una volta pochi avevano denunciato l’insufficienza o la valenza criminogena mentre tali concetti, prima negati, oggi sono ripresi anche da chi allora l’aveva sostenuta. Emblematica per ambivalenza è la riforma della giustizia, termine ambiguo essendo noto che la destra la intende come mezzo di ingabbiamento e di punizione dei magistrati mentre altri la concepiscono come strumentazione per consentire al servizio di funzionare al meglio. Ecco che ci vuole un sano sospetto quando si sente dire “vogliamo riformare”: perché ogni riforma suppone chiarezza di obiettivi, perché non ogni cambiamento è buono (per paradosso, non lo sarebbe il rendere lecito ammazzare la mamma), perché non sempre il cambiamento attuato è quello buono e non sempre il cambiamento buono è quello attuato. Andare a vedere le carte sulle quali compiere la valutazione non è diffidenza ma è doveroso esercizio di partecipazione alla “democrazia critica” di Gustavo Zagrebelsky distingue i cittadini avveduti da quelli che ingoiano tutto per la disperazione che induce a delegare tutto all’uomo del momento. Il riformismo di Renzi è “por supuesto”: per gli spagnoli cosa buona e giusta. Lui aggiunge che dal (praticare) le riforme dipende il nostro peso in Europa. L’Italia va molto male; non è difficile vedere che c’é necessità di un vigoroso e rigoroso cambiamento. Ma anche il suo riformismo bisogna che sia apprezzabile, prima ancora che attuato. Emblematica è la riforma del Senato, annunciata con obiettivi di accelerazione della produzione legislativa (evitare la doppia lettura delle leggi) e di risparmio. Renzi ha detto che su questa riforma gioca la sua faccia e la sua stessa permanenza in politica. Egli è coraggioso e pieno di foga, doti che hanno contribuito al successo alle elezioni europee. Ma, come anche lui sa. il punto è non che cosa si gioca lui, ma che cosa si giocano le istituzioni e noi cittadini: un giudizio positivo gli confermerebbe il consenso, mentre le riforme sbagliate o non attuate glielo toglierebbero. Cambiare gli accidenti per non cambiare la sostanza avrebbe un effetto boomerang, che è quello prodotto dai governi Berlusconi e dalle meteore degli inutili) governi Monti e Letta. Perciò occorre vedere di che cosa si tratta, con particolare attenzione al complessivo disegno costituzionale che si vuole. Il Senato si può sopprimerlo o trasformarlo, cioè cambiandone le funzioni ma mantenerne la struttura. La proposta in campo è la seconda, con funzioni ridotte (pressoché del tutto banali) attribuite al Senato restando alla sola Camera quelle più importanti quali la fiducia e le leggi ordinarie. Ora, non è scandaloso ritenere che bisogna passare al monocameralismo. Può essere utile riflettere che il bicameralismo, nato con la Costituzione, è figlio di una stagione caratterizzata dal sistema elettorale proporzionale, quando l’elezione del presidente del consiglio avveniva nel Parlamento e questo era chiamato ad essere il controllore dell’esecutivo. E’ figlio della cultura dei contrappesi, tra i quali la pluralità degli organi di controllo politico. La due Camere erano chiamate a controllarsi a vicenda ed entrambe, quale potere legislativo, a controllare quello esecutivo. Il bipolarismo e i premi di governabilità hanno messo in crisi lo schema. La maggioranza in Parlamento è la stessa che sostiene il governo. Da tempo è l’esecutivo che detta l’agenda al Parlamento, il quale è quasi esclusivamente chiamato a votare decreti legge sostenuti da questioni di fiducia. Passano sempre meno leggi di formazione esclusivamente parlamentare non sollecitate, e ancor meno non gradite, dal governo. Tutto ciò in presenza di un ruolo del Capo dello Stato divenuto sempre più penetrante. La funzione delle Camere, quindi, è poco più che notarile: la maggioranza avalla quanto deciso dai governi, di destra, di sinistra o tecnici, in raccordo con la presidenza della repubblica. Questa anomalia mi è capitato di denunciare tante volte in Parlamento, ma inutilmente. Dunque, dobbiamo prendere atto che la funzione del Parlamento è sempre più di natura formale, assolvendo prevalentemente al ruolo di sede ove si esercita l’opposizione. Ma ciò può essere fatto anche da una sola delle Camere. D’altra parte la Costituzione si sta modificando materialmente anche nel senso che ormai i decreti legge, anche per evitare che non siano convertiti per decorso dei sessanta giorni, sono per lo più approfonditamente esaminati –ma sempre sotto lo sguardo vigile e determinante del Governo- solo dalla camera ove sono presentati, svolgendo l’altra un mero ruolo notarile; quasi tutti si concludono con voto di fiducia su un testo (emendamento-monstre anche con centinaia di commi) blindato del Governo. Perciò il bicameralismo, superato dai fatti, potrebbe esserlo anche nei testi con una riforma costituzionale monocameralista che consenta anche una maggiore speditezza del procedimento legislativo. Per dare alle opposizioni voce, anche se non peso, può essere ritenuta sufficiente una Camera. Semmai il problema è quello di come ottenere un effettivo potere di controllo del Parlamento sul Governo trovando contrappesi al soverchiante potere dell’esecutivo: obiettivo ineludibile se si pensa che anche altri istituti di garanzia potrebbero perdere tale qualità in conseguenza del predominio sul potere legislativo da parte dell’esecutivo e della maggioranza che lo ha eletto. Tanto più che,un basso numero di consensi elettorali potrebbe, soprattutto se il premio di governabilità fosse esorbitante, diventare maggioranza assoluta. Ebbene, quella parziale espressione di voti potrebbe determinare l’elezione del presidente della repubblica, in modo da ascriverlo a proprio esponente e condizionarlo. Il fatto ne influenzerebbe le scelte non solo nei delicati e pregnanti suoi rapporti con governo e parlamento, ma anche nella composizione degli organi di controllo, e cioè il Consiglio Superiore della Magistratura, di cui egli è presidente, e soprattutto la Corte Costituzionale, di cui il presidente della repubblica nomina cinque componenti mentre altri cinque sono eletti dal Parlamento attraverso la stessa maggioranza governativa, cui verrebbero così a fare riferimento due terzi della Corte Evidente sarebbe quindi il rischio che le principali istituzioni di garanzia, specialmente il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale, perdano la propria natura “super partes” e che possa essere influenzato anche il CSM, l’organo di governo autonomo della magistratura che rappresenta il potere dello Stato rimasto indipendente dalla politica e dalle maggioranze. Purtroppo, per il clamore mediatico e le poste messe sul tavolo della riforma ma che non la riguardano (quali egemonia nel paese e nei partiti o prospettive elettorali e di conquista di nuovi consensi), analisi come questa producono risultati non adeguati alla loro importanza, persino in chi avversa la riforma costituzionale dal punto di vista dell’esigenza del rafforzamento democratico e ne denuncia i rischi, come i professori di Libertà e giustizia. Ed invece il tema del bilanciamento tra poteri costituzionali e dei loro contrappesi diventa quello veramente cruciale nel momento in cui si pone mano ad una modifica della Costituzione così vasta da incidere, appunto, sugli equilibri degli istituti costituzionali. In definitiva, la questione veramente seria è come fare perché il rafforzamento dell’esecutivo non deprima l’effettiva capacitò di controllo e di bilanciamento degli organi costituzionali di garanzia. Tale problema si pone anche se si trasforma il Senato in un moncherino che presenta contorni confusi quanto a competenze (la rappresentanza delle autonomie si può ottenere costituzionalizzando la conferenza stato-regioni-comuni) e che ora suscita dispute su aspetti pur importanti (quali quelle sul metodo di elezione dei componenti e l’invereconda estensione dell’immunità dei deputati per reati comuni anche ai nuovi senatori, mentre dovrebbero essere tolte anche alla Camera fatta salva solo l’insindacabilità per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio della funzione parlamentare), ma che purtroppo solamente lambiscono la gravità dei problemi che la modifica costituzionale pone. Peraltro, tenere in piedi un ibrido poco significativo smentisce anche l’obiettivo del risparmio, anch’esso presentato come ragione della riforma, perché si manterrebbe in piedi un apparato corposo e assai costoso concernente personale, sedi (acquistate o in locazione), spese di funzionamento, eccetera, su cui la mancata corresponsione degli emolumenti ai senatori incide solo in misura insignificante. Il costo del Senato, pari a circa 500 milioni all’anno, si ridurrebbero neppure di un terzo per il venir meno degli emolumenti ai parlamentari e delle spese connesse alla loro attività e funzione. Se si vuole davvero il monocameralismo bisogna essere coerenti fino in fondo sopprimendo il Senato senza scappatoie ma con una robusta batteria di contrappesi e di bilanciamenti tra gli organi costituzionali. Le riforme a metà o solo declamate, e a maggior ragione quelle sbagliate, producono solo ulteriore delusione e non risolvono i problemi, anzi sottraggono loro tempo ed attenzione contribuendo ad alimentare quell’idea di relativismo e di strumentalità che spesso si associa ormai alle idee di riforme, riformismi e riformisti, come sta avvenendo per province, pubblica amministrazione, tetto alle retribuzioni dei manager pubblici e privati, scuola, fisco, partecipate, e così via elencando. Non basta dire “ce la facciamo” se non facciamo; soprattutto bene. Analoghe considerazioni potrebbero svolgersi sul capitolo –ancora tutto da aprire- del governo della regione e dei comuni, su cui sarebbe importante l’analisi di metodo su riforme e riformismi, a cominciare dalla necessaria individuabilità del progetto e della corrispondenza delle azioni a quanto declamato. *Federico Palomba, già vice presidente della commissione giustizia della Camera dei deputati
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