L’eredità preziosa di Placido Cherchi [di Silvano Tagliagambe]
Placido Cherchi ci manca. Placido Cherchi manca alla Sardegna. È il critico d’arte rigoroso che ha sfatato, già negli anni ’70, il mito che il cubismo, il futurismo, le avanguardie funzionalistiche fossero l’espressione della rivoluzione della fisica dei primi decenni del ‘900, in particolare della teoria della relatività generale di Einstein. Una parola definitiva su questo aspetto è stata detta successivamente, nel 1983, dal critico d’arte statunitense Linda Dalrymple Henderson, che nel suo ragguardevole volume The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art ha scritto: “L’errore degli storici dell’arte che si sono occupati di cubismo e teoria della relatività è stato quello di ritrovare nella letteratura cubista del 1911 e del 1912 l’equivalente dello sviluppo in fisica di un continuum spazio-temporale non-euclideo che non venne mai completato sino al 1915 o 1916. L’assenza del termine quarta dimensione dalla teoria della relatività fino al 1908 e l’assenza di una geometria non-euclidea fino a circa il 1916, fanno supporre che sia fortemente discutibile una possibile influenza della teoria della relatività sul cubismo”. In effetti, la confusione nacque a causa della compresenza di due concetti (l’uno geometrico e l’altro fisico) del tutto diversi in materia di quarta dimensione. Ed è il primo, e non poteva essere altrimenti, a far da ponte al secondo: Placido Cherchi lo aveva capito prima e meglio di tanti altri critici e interpreti celebratissimi. Placido Cherchi, insieme a Luigi Mazzarelli, ha avuto il coraggio e il merito di dire con chiarezza e rigore che un’arte la quale si libera dall’oggetto e dal significato non può non diventare un’arte che si libera anche del senso dell’esperienza e del valore dei suoi contenuti. Da scienza della forma del significato, l’arte, in questo caso, diventa scienza di una forma fine a se stessa, di una forma che, al di là di sé, non rimanda ad altro. E laddove il valore del significato non esiste più, tutto entra nella forma di esistenza precaria, effimera, dello spettacolo: e la “società dello spettacolo” trionfa. Si tratta di un trionfo reso possibile dalla cosa più grave che possa accadere a una cultura: la cancellazione della memoria, la perdita del proprio passato. Della propria identità. Placido Cherchi, leggendo e interpretando in modo impareggiabile l’opera di Ernesto de Martino, ci ha fatto riflettere sul fatto che la crisi della nostra civiltà non può più essere interpretata soltanto come una crisi della ragione, intesa in quanto indebolimento o trasgressione degli imperativi razionali, ma deve essere letta soprattutto come una conseguenza dell’eccesso di fiducia che ha portato la ragione occidentale a chiudersi orgogliosamente nei confronti del diverso e dell’altro da sé. Arroccato da millenni nell’angustiadei suoi pregiudizi culturali e garantito dalla legittimazione metafisica delle proprie sicurezze, l’Occidente si è reso sempre più impermeabile al significato della differenza e ha smarrito sempre di più la nozione delle proprie origini. Questa delegittimazione delle differenze sta producendo il deserto dell’identità, sta rovesciando il senso e il valore di quello che Lacan chiama la “fase dello specchio”. Questa espressione è utilizzata nella psicologia evolutiva di matrice lacaniana per indicare quel processo cognitivo, compreso tra i sei e i diciotto mesi di vita, in cui il bambino giunge a riconoscere l’immagine che scorge nello specchio come la propria. Posto di fronte a uno specchio il bambino dapprima reagisce con un senso di estraneità, come se potesse interagire con l’immagine che vede; solo in un secondo momento si renderà conto dello statuto immaginario di quella sua visione: infine egli giungerà a comprendere che quella che vede non solo è un’immagine, ma è la propria immagine. È dunque attraverso l’immagine che lo specchio restituisce che si ha, in una prima fase, il momento di trasformazione del soggetto, il quale, proprio grazie all’immagine che lo identifica, in cui egli riconosce sé e ciò che gli appartiene, distinguendo sé dal mondo circostante, prende coscienza della propria realtà e natura. La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna, secondo Placido Cherchi, segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli. La depressione e lo scoramento che ci circondano sono anche il prodotto di questa svalutazione e svendita di un patrimonio ideale e culturale, che pure è il retaggio di forme di civiltà estremamente raffinate, come quella bizantina e quella islamica del periodo aureo, influenzata dal pensiero greco di cui voleva conservare e valorizzare l’eredità filosofica. Questi retaggi, ci diceva Placido Cherchi, sono entrati in modo profondo nelle pieghe coscienziali del nostro modo di essere, lo hanno reso unico, profondo e raffinato. Eppure, condizionati da quella che altrove ho chiamato “sindrome di Dorian Gray”, è come se, in seguito a un arcano maleficio, nello “specchio di Lacan” nel quale i sardi cercano la propria immagine e la propria identità venissero travasate soltanto le tracce dei vizi e delle debolezze del passato e del presente. Così essi sono indotti a vergognarsi. È però ormai tempo che questa vergogna di sé divenga il punto di partenza di un processo capace di rovesciarla nel suo contrario. Per pervenire a questo risultato ci vorrebbero una guida, un progetto, una visione in grado di trasformare in energia positiva l’attuale depressività passiva, di far scattare una scintilla di ribellione proattiva, di ritrovare valori che non si limitino a contrapporre al presente un passato di incerte nostalgie, ma siano nutriti e sorretti dalla consapevolezza che il nostro passato sta nel futuro, che riusciremo a valorizzare realmente ciò che siamo stati se da questo patrimonio saremo in condizione di estrarre una bussola per orientarci nella complessità della realtà che stiamo vivendo e del mondo che ci aspetta. Non è più il momento del tempo che scorre e ci trascina con la placida corrente del suo divenire, del tranquillo concatenarsi di passato, presente e futuro. Il tempo ormai è sempre più assimilabile all’arte della tessitura: richiede tessitori competenti, che posseggano l’arte di spingere la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato, e il colpo va dato mentre il varco è aperto. Placido Cherchi aveva profondamente assimilato l’idea classica dello stretto collegamento tra tempo, tessere e fato. Per questo aveva capito che il tempo non va subito, ma tessuto con maestria. E se mancano i tessitori il fato ci attende al varco con il volto inesorabile del declino: perché come ci dice un bellissimo frammento di Eraclito (119 DK), ethos anthropoi daimon, “il carattere dell’uomo (ma potremmo benissimo estendere il concetto anche a un popolo) è il [suo] destino“: il carattere è la particolarità che ogni popolo esprime usufruendo delle opportunità che gli vengono offerte dalla storia e che può cogliere solo se riesce a uscire da un pericoloso percorso di spaesamento e a identificare e raggiungere lo scopo interiore della sua unica ed irripetibile vita. |
Stimolante specialmente per chi crede, come Lei, alla formazione plurale dell’io soggettivo. Grazie
Non so se ho ben capito o equivocato, ma mi sono presa la libertà di discutere con Lei certi aspetti del suo articolo.
Bisogna farsi capire andando oltre l’ermetismo di un linguaggio. Per questo non vi è alcuna ricaduta sulla società.