Je suis Walter [di Romano Cannas]

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L’Unione Sarda 23701/2015. Perché non sognare un grande movimento di opinione, fatto di donne, uomini, giovani, come tante volte è accaduto nel nostro paese, per sostenere quella battaglia civile e coraggiosa che Walter Piludu, malato di Sla, sta portando avanti per rivendicare dal parlamento una legge che finalmente regolamenti il problema del “fine vita“? È accaduto ai tempi della legge sul divorzio. Si è ripetuto per la legge sull’interruzione di gravidanza e in tante altre battaglie per difendere diritti, libertà, dignità delle persone.

Perché oggi tanta indifferenza? Sono forse cambiati i giovani che, come direbbe Marcuse, hanno smarrito quello spirito rivoluzionario che negli anni Sessanta ha contribuito a cambiare il mondo? È cambiata la nostra classe politica? Sono cambiati gli intellettuali non più capaci di essere un’avanguardia ascoltata e rispettata? Forse le tre cose insieme.

Eppure la battaglia di Walter Piludu interroga le nostre coscienze. Chiede un confronto tra opinioni diverse al di là delle proprie idee politiche e religiose. “Laico non credente” , su un problema così eticamente delicato e divisivo come quello del “fine vita” , non si è limitato a rivolgersi a tutte le forze politiche presenti in Parlamento ma ha sentito il bisogno di dialogare con Papa Francesco che ha già profondamente cambiato la Chiesa, anche su un tema di straordinaria importanza come il confronto tra credenti e non credenti.

Chi sono io per giudicare?” : le parole di Papa Francesco invitano al rispetto reciproco. Walter Piludu, un passato da esponente politico di sinistra, cresciuto alla scuola gramsciana della disciplina politica e della solidarietà nei confronti degli ultimi, oggi imprigionato in quel suo corpo malato, nella sua ultima battaglia politica chiede una legge che dia a tutti quei malati che non hanno più una prospettiva di vita dignitosa, la libertà di decidere come scrivere l’ultima pagina del libro della propria vita. Chiede di decidere con responsabilità e libertà come e quando morire.

Uso le parole del teologo Vito Mancuso: il diritto alla vita non può diventare un dovere. Walter Piludu, nel suo lucido articolo pubblicato recentemente su l’Unione Sarda, ha ricordato le parole di Papa Wojtyla, “Lasciatemi tornare alla casa del padre”. Ho negli occhi l’immagine dolente di Karol Wojtyla. C’è qualcuno che può pensare che quel Papa – santo, con quell’invocazione, stesse chiedendo un privilegio ad personam, cioè soltanto per sé?

Sul rifiuto dell’accanimento terapeutico la Chiesa ha , dunque, assunto una posizione di apertura, nonostante le molte e potenti lobby interne che frenano il cammino del rinnovamento. Ecco perché penso che assuma una grande importanza la risposta che il Sostituto della Segreteria di Stato del Vaticano, monsignor Angelo Becciu, ha inviato , a nome del Papa , a Walter Piludu che aveva scritto a Bergoglio una lettera che è un esempio di coerenza e rispetto.

Prevedibile l’obiezione: un cosa è il rifiuto dell’accanimento terapeutico, sul quale esiste un ampio consenso trasversale, altra cosa è l’eutanasia (buona morte ) che è ciò che chiede Walter Piludu nella sua lettera inviata a tutti i leader politici e alle massime cariche istituzionali. In realtà Piludu, da uomo dialogante, sostiene che “il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia sono due cose distinte ma non distanti.” Un’affermazione, credo, che debba essere intesa come un invito alle persone di buona volontà a ricercare possibili punti di incontro. Naturalmente qualunque legge che disciplini questa materia non può che partire dall’autoderminazione del malato.

Il problema vero di tutta questa vicenda è l’indifferenza del Parlamento. C’è un deficit di politica capace di ragionare in maniera alta e di decidere con coraggio e senza furbizie. Questo Parlamento non avrebbe mai approvato né la legge sul divorzio né la legge sull’interruzione di gravidanza. È un argomento di cui si parla poco come accade per tutti i temi difficili che dividono le coscienze. Nella migliore tradizione della doppia morale, secondo il vecchio principio “si fa ma non si dice“.

Perché non dire allora che in Italia esiste una diffusa, clandestina pratica dell’eutanasia riservata soltanto a chi conosce un medico coraggioso che nei reparti di terapia intensiva o a casa del malato toglie i farmaci e aumenta le dosi di morfina? Chi non può si suicida spesso in modo cruento.

 

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