Se non proviamo a capire l’Islam facciamo il gioco dei terroristi [di Stefano Gatto]
www.glistatigenerali.com18 gennaio 2015. Nella sua ultima battaglia, descritta in una scena memorabile del film di Ermanno Olmi «Il mestiere delle armi», Giovanni dalle Bande Nere va all’assalto dei suoi nemici alla maniera classica, medievale, quella della guerra “tra signori”, e viene sorpreso dalla scarica d’un cannoncino occulto dietro un muretto. La ferita inflittagli lo porterà alla morte, e quest’episodio simbolizza la fine di un mondo e l’inizio di un altro, in cui le guerre non si combatteranno più tra “uguali” seguendo un preciso codice d’onore, ma grazie all’invenzione dell’arma da fuoco, colpendo da lontano, senza esporsi in un duello corpo a corpo. La morte di Giovanni dalle Bande Nere è dovuta a un fenomeno asimmetrico: le due parti lottano usando metodi diversi, e usare un metodo nobile ma superato porta alla sconfitta. In vari momenti nella storia dell’umanità nuove armi e metodi di combattimento fecero la differenza, colmando un abisso incolmabile, indipendentemente dalle ragioni morali di chi lottava: gli esempi sono infiniti, ma pensiamo solo all’acciaio e alle armi da fuoco dei colonizzatori del continente americano, alle coperte infettate di vaiolo che sconfissero le più valorose tribù indiane negli Stati Uniti, all’invenzione della “guerrilla” da parte dei patrioti spagnoli per controbilanciare la superiorità in campo aperto delle truppe napoleoniche, alla guerra popolare combattuta dai vietnamiti contro gli americani, che lasciarono il paese asiatico sconfitti senza aver perso una sola battaglia. Molti americani mai videro un vietcong, e pure ne furono battuti. Un altro esempio di salto metodologico fu l’apparizione della forza aerea: nella prima guerra mondiale, i duelli cavallereschi tra piloti non cambiarono strategicamente il conflitto; nella seconda, la superiorità sui cieli e la capacità di scatenare l’inferno dall’alto risultarono decisivi. E il suggello alla seconda guerra mondiale viene dal cielo, con Enola Gay. La prima guerra aerea sarebbe piaciuta a Giovanni dalle Bande Nere, la seconda ai suoi nemici. Tutti questi esiti militari non furono il risultato della giustizia d’una causa, ma d’una asimmetria tecnica e metodologica: sconfigge l’avversario chi riesce a sorprenderlo, a combatterlo su un terreno a lui ostico, che non ha scelto. Acquisisce un vantaggio decisivo chi è capace di creare un’asimmetria, o di sfruttarne una esistente a suo favore. Il terrorismo jihadista ha creato una nuova asimmetria, che non è solo militare ma multidimensionale: la rielaborazione in chiave terroristica del concetto di “kamikaze”, nata negli anni novanta negli orfanotrofi pachistani, nei quali i radicali reclutarono ragazzi senza famiglia deboli di mente imbibendoli dell’idea d’eroismo suicida, si è poi diffusa nelle madrasse mediante l’eroicizzazione mistica di tali precursori, che erano semplicemente persone incapaci d’intendere, permettendo attacchi di nuovo tipo, difficilmente contrastabili e prevenibili appunto perché l’attaccante, sapendo di morire e volendo farlo, può spostare i confini dell’audacia molto al di là di dove i difensori possono fermarlo. Quest’asimmetria del terrorismo jihadista, che non avevano usato altri gruppi armati precedenti, sorprese il mondo l’11 Settembre, ma ha continuato a farlo da allora: il jihadista ha sempre il vantaggio della scelta dell’arma e del primo colpo, che spesso, per l’effetto – sorpresa, è anche l’ultimo. Costretti sempre sulla difensiva, gli stati sono succubi d’una situazione asimmetrica che li sfavorisce anche quando cercano di replicare: la superiorità convenzionale delle loro forze serve a ben poco contro un avversario schivo e invisibile, come ha dimostrato l’impossibilità di combattere il terrorismo usando mezzi militari classici quand’anche molto preponderanti, vedansi disastri dei bombardamenti a tappeto su zone occupate da gruppi insurrezionali, dall’Afghanistan alle zone tribali del Pakistan, dall’Algeria alla Siria / Iraq. Saddam Hussein fu schiantato perché forza convenzionale, il terrorismo lo devi sconfiggere con intelligence, prevenzione e una controffensiva culturale, che sconfigga la mistica di Al Qaeda e ISIS che, piaccia o no, esiste, è efficace e seduce. La reazione al massacro di Parigi, doverosa nella sua difesa della libertà d’espressione e nell’orrore per un delitto eseguito con crudeltà e cinismo (ben altro rispetto ai primi bomber imbottiti d’esplosivo, alcuni dei quali nemmeno avevano capito che sarebbero morti), corre il rischio di riprodurre asimmetrie che l’Occidente potrà pagare care in futuro. Nessuno dubita che i terroristi non avessero nessun diritto “morale” di perpetrare l’eccidio, nonostante loro se lo siano attribuito. Nessuno dubita che la libertà d’espressione sia valore da difendere e tutelare. Ciò non toglie, che ci piaccia o no, la satira in materia religiosa, che noi accettiamo, oggettivamente non aiuti nei rapporti complessi tra Occidente e Islam. In questi giorni si fa bel dire a affermare “si svegli l’Islam moderato, se esiste” o “il mondo mussulmano deve capire che la satira fa parte del nostro mondo, e la devono accettare”. Tutto giusto, tutto vero: ma il rapporto Occidente / Islam è asimmetrico, e cosi le percezioni: non basta che una parte dica all’altra: cambiate voi. Bisogna che il fossato si riduca, e questo non lo può ottenere una sola parte. L’asimmetria la si riduce solo lavorando insieme al riavvicinamento. L’uragano di parole e oltraggio successivo a Parigi non è andato in quella direzione: quest’eccidio è servito soprattutto a riaffermare la lontananza tra le nostre identità, ma se ci pensiamo bene questo è quello che vogliono gli islamisti radicali, non quello che interessa a noi. Loro non stanno attaccando Occidente per farlo proprio, come si ripete da più parti senza costrutto: stanno difendendo il loro terreno, che non vogliono influenzato dal modo di vita occidentale, contro cui compiono azioni dimostrative per far venire i nostri nervi allo scoperto. La reazione rabbiosa ci porta nel loro campo, dove loro ci vogliono. Dall’11 settembre ad oggi, il fossato, già abbastanza amplio, tra Occidente e Islam si è ulteriormente allargato: il quid della questione è capire perché, da quel momento in poi, il radicalismo, che avrebbe dovuto essere sconfitto per le ingenti risorse messe a disposizione da Usa e Occidente per farlo, è invece divenuto sempre più forte. Dopo l’abbattimento delle torri gemelle, chi nel mondo islamico aspirava al cambiamento e alla modernizzazione guardò con fiducia all’intervento in Afghanistan, visto come un’occasione non solo di cacciare i retrivi Talebani dal potere, ma anche di costruire una nuova governance, efficace e trasparente, in un paese che non l’aveva mai avuta. In uno degli epicentri del modello conservatore islamico si portava la sfida della modernità, e la si sarebbe potuta vincere, creando potenzialmente un effetto domino nel resto del mondo islamico. Ma la decisione di appoggiare i signori della guerra in chiave anti – Bin Laden anziché concentrare gli sforzi sul rafforzamento di uno stato afghano che era ed è rimasto debolissimo, e ignorare il pericolo della riorganizzazione talebana preoccupandosi solo di Al – Qaeda (quest’ultima faceva paura in Occidente, i Talebani potevano colpire solo nella loro regione di riferimento) portò a trascurare molto presto lo scenario afghano, che per tredici anni continuò a assorbire ingenti risorse senza che si ottenessero risultati probanti ne’ in termini di migliorata governance, ne’ di eliminazione del pericolo integralista nella regione, di fatto aumentato. La recente ritirata occidentale lascia dietro di sé uno scenario molto precario. L’altro fattore che complicò la situazione in Afghanistan fu deviare da subito l’attenzione verso l’Iraq, scenario completamente diverso nel quale il terrorismo radicale non aveva base alcuna, e, una volta sconfitto Saddam, fallire un’altra volta completamente l’esercizio di “state – building”. L’Iraq di oggi è più debole e instabile di prima dell’intervento occidentale e proprio lì è sorto il nuovo fronte integralista, quello di ISIS, stella crescente nella competitiva galassia del radicalismo. L’emirato di Al Bagdhadi è in competizione diretta con quello del Mullah Omar, e in questo rapporto concorrenziale s’inserisce anche Al – Qaeda: il fatto che il mondo dell’islamismo radicale sia diviso dal punto di vista delle fedeltà e dell’organizzazione è una delle poche carte vincenti in mano occidentale, ma al tempo stesso complica il compito di sconfiggere gruppi diversi tra loro e altrettanto sfuggenti. La possibile saldatura/alleanza tra i due emirati, quello della Siria e del Levante controllato da Isis e quello afghano / pakistano controllato dai Talebani afghani è il maggior pericolo attuale, anche se per il momento un’alleanza tra le anime araba e afgo – pakistana è ancora improbabile. Anche se le ingenti risorse controllate da ISIS gli stanno permettendo di reclutare adepti nei campi profughi tra Pakistan e Afghanistan. Ma è improbabile lo è per problemi interni loro, non per lungimiranti azioni occidentali. Il maggior peccato statunitense dopo l’11 settembre, quello che ha fatto più danni, fu quello di reagire non razionalmente ma di d’istinto: anziché farsi forte del meglio della civiltà occidentale, lo stato di diritto e la democrazia, usandole come armi d’attrazione nei confronti del mondo islamico, rinunciare agli standard minimi che sono propri dell’Occidente per lottare i radicali con le loro armi: gli Usa sono parsi per un momento l’amico dei progressisti nel mondo mussulmano, per divenire presto quelli di Abu Graib e Guantánamo. Le tute arancioni dei condannati a morte di ISIS ce lo ricordano costantemente: giocando nel loro terreno facciamo il loro gioco, e alimentiamo il terrorismo. Il recente rapporto del Senato Usa ha messo in evidenza non solo che gli Usa hanno fatto uso della tortura, che è vietata dal diritto internazionale in ogni circostanza, ma anche che il suo uso non ha dato nessun risultato significativo nella lotta contro il terrorismo (Jack Bauer e il suo 24 sono solo fiction). Non solo quell’approccio testardo non ha dato risultati, ma ha trasmesso il messaggio che Occidente non è sempre moralmente superiore ai radicali portatori di morte: questa è la lettura dominante che si dà nel mondo islamico, questa è un’asimmetria che se non corretta continuerà a ampliare la breccia: in Occidente si tende a considerare l’Islam tutto come un monolito univoco (e negativo), mentre Occidente è una vittima pacifica. Nel mondo islamico, si nota che le truppe occidentali hanno invaso paesi islamici, non hanno migliorato la situazione delle popolazioni locali né fatto emergere governanti migliori, che il 95% delle vittime del terrorismo integralista sono mussulmani e che per un massacro a Parigi se ne producono diversi ogni giorno nei paesi islamici, che l’opinione occidentale considera “fatti loro”. L’illusione della guerra telecomandata, che si può combattere senza rischiare truppe sul terreno (anch’essa una nuova svolta strategica che introduce una nuova asimmetria), porta a operazioni notturne dirette da basi Usa che se ottimizzano il rischio per la parte americana, lo moltiplicano per dieci per le popolazioni locali: quei bombardamenti giornalieri silenziosi uccidono molti più civili che terroristi, anche se non fanno notizia da noi, e per un terrorista eliminato muoiono parecchi civili non legati al terrorismo. Molti di loro lo diventeranno DOPO il bombardamento. L’uso dei droni è il principale punto d’attrito che ha fatto deragliare i rapporti tra Usa e Afghanistan / Pakistan in questi anni, ed è risultato uno straordinario veicolo di RAFFORZAMENTO del terrorismo. Aggiungiamo a questo che negli ultimi quindici anni un numero crescente di giovani mussulmani non ha altro accesso all’istruzione che mediante l’insegnamento coranico delle madrasse, finanziate generosamente da Arabia Saudita e in parte Qatar che, teorici alleati dell’Occidente, blandiscono i radicali finanziandoli generosamente, spostando il pericolo terrorista dai loro territori ad altri, compreso l’Occidente. Le madrasse non rispondono agli stati, solo insegnano una lettura tradizionale del Corano e esportano la versione più conservatrice dell’Islam, quella wahabita, in zone dove essa non esisteva fino a quindici – vent’anni fa: in Asia del Sud, nel sudest Asiatico, in Asia Centrale, in Africa. E in Europa, dov’è sorto il nuovo fenomeno di una minoranza di giovani mussulmani che, nati in Europa e cittadini europei, decidono di rifiutare la civiltà europea per difendere la visione conservatrice dell’Islam. Sono minoranza, anche se adesso l’opinione pubblica fa di tutta l’erba un fascio. Io vivo e lavoro in Pakistan, uno dei principali epicentri e diffusori dell’integralismo religioso, sempre più potente culturalmente. Il Parlamento ha appena approvato una condanna delle vignette anti–islamiche, ripubblicate in grande stile dopo Parigi, e ha chiesto ai paesi europei di lottare contro l’islamofobia così come lo fa con l’antisemitismo. Una grande sfida per noi, che sicuramente non sarà appoggiata da buona parte delle nostre opinioni pubbliche, ma che non è priva di significato. La settimana scorsa ho impartito un corso di formazione a giovani diplomatici pakistani: molto educati e ben preparati, non hanno studiato nelle madrasse e non sono radicali. Pur essendo il corso sull’Unione Europea, abbiamo avuto modo di discutere a lungo la dimensione islamica dell’Europa, i complessi rapporti culturali tra Occidente e Islam, i diritti umani e le concezioni spesso divergenti tra noi in questo campo. Dopo il massacro di Peshawar, il Pakistan sta dando una svolta che potrebbe essere decisiva nel lottare davvero contro il terrorismo nel suo territorio, cosa non fatta davvero negli ultimi quindici anni (e i Talebani furono creazione pakistana). Questo implica anche mettere fine allo strapotere dei leader religiosi e alla moltiplicazione delle scuole coraniche, oggi non sotto il controllo dello stato. Da lì viene chi abbraccia la jihad, non da altri settori della società. A questi giovani pakistani, intelligenti e colti, risulta difficilissimo capire il valore della satira dissacrante verso simboli religiosi altrui: esiste nel nostro ragionare su certi temi un’asimmetria insuperabile che non è il risultato della bontà implicita dell’una o dell’altra religione, ma del fatto che le nostre società sono a livelli diversi di sviluppo, e che la libertà d’espressione non è ancora un valore assoluto da difendere in questa parte del mondo. Ci può sembrare una brutta cosa, ma dobbiamo tenerne conto e non immaginare che loro diventeranno come noi perché glielo diciamo con il dito alzato. Non sono certo dei pakistani colti e moderni a attaccare gli occidentali con i mitra, ma è lavorando con loro che potremo costruire rapporti più equilibrati e rispettosi tra i nostri mondi, per certi versi così distanti. Ignorare la cultura dell’altro, considerarla “inferiore” pur senza conoscerla, assimilare tutto l’Islam in un solo concetto come è di moda fare dopo Parigi significa fare il gioco di chi considera noi Occidente tutti uguali: significa portare il dibattito nel campo che a loro conviene di più, quello delle identità contrapposte e in lotta costante. Secondo la visione ottimista post – 11 settembre, che si vide in parte confermata dai sussulti della primavera araba, la visione occidentale del mondo avrebbe dovuto convincere e sedurre il mondo islamico. Invece, si è fatto in modo che gli integralisti divenissero sempre più forti. E’ evidente che si è sbagliato molto, confondendo obiettivi di corto periodo (sconfiggere l’operatività delle reti terroristiche) con quelli di lungo (creare un rapporto positivo tra Islam e Occidente). Nel perseguire il primo, si è paradossalmente allontanato il secondo. Poi, periodicamente, ci sorprendiamo d’essere attaccati, e trasformiamo una minoranza violenta nel simbolo di un’intera civiltà. Invocando di nuovo misure di corto periodo. Sarebbe pero sbagliato ignorare che all’interno del variegato mondo islamico esista un vero problema di fondo, quello della modernità, del progresso e dell’apertura: gli integralisti vogliono conservare il loro mondo così com’è, e ci stanno riuscendo, di fatto intere zone del mondo islamico stanno regredendo, chiudendo finestre di libertà che si erano aperte. Non vogliono invadere Occidente, ma impedire che il modo di vita occidentale invada loro. Anche se a noi non sembra, e ci sentiamo solo vittime, la storia dell’ultimo secolo di presenza occidentale nel mondo islamico è andata invece in quella direzione, ricordiamocelo. Non è una scusa per i terroristi, ma è un fatto. Un ultimo appunto sull’Islam moderato, che è tanto di moda criticare: sarebbe ingiusto non sottolineare che in certe zone del mondo islamico, essere moderati alla maniera occidentale è un rischio molto forte. Chi critica certi comportamenti e condanne rischia la morte, e comunque chi fa la voce grossa (i radicali), farà sempre più rumore di chi agisce con moderazione. Dobbiamo quindi aiutare quella maggioranza di mussulmani moderati che vogliono vivere in pace con l’Occidente. In questo senso, le vignette che tanto brillanti sembrano a noi, nella dialettica Occidente – Islam non avvicinano, ma allontanano. L’asimmetria di sensibilità e sviluppo sociale attualmente esistente tra Occidente e Islam non può essere colmata solo da misure coercitive e dall’imposizione dei criteri di una cultura sull’altra, ma dal riavvicinamento tra due universi culturali sempre più distanti. E il riavvicinamento suppone uno sforzo di entrambe le parti nel comprendere le ragioni dell’altro, per assurde che ci sembrino. Credo che dopo Parigi lo si sia fatto molto poco.
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