Persone e dignità. Il caso Piludu [di Silvano Tagliagambe]
L’Unione Sarda 26 gennaio 2015. “Fino a quando siamo persone?”. Tagliagambe: ecco le vere domande celate nell’appello di Piludu. La domanda fondamentale che non solo la filosofia, ma anche la religione e le scienze umane si sono sempre poste, come questione cruciale da risolvere, è il problema di che cosa sia una persona. La risposta che oggi viene data individua sei condizioni necessarie per poter essere considerati tale: la razionalità; la capacità di agire secondo intenzionalità, cioè il poter dire di essa che “pensa”, “crede”, “vuole”; il fatto di essere riconosciuta e trattata dagli altri come persona; l’essere in grado di contraccambiare gli atteggiamenti assunti nei suoi confronti; la capacità di comunicazione verbale, che è il presupposto per avere autocoscienza; e infine la possibilità di partecipare a quel gioco di domande e risposte che è il fornire ragioni sui motivi del proprio agire. In presenza di queste sei condizioni non è possibile che il riconoscimento di una persona non ci riesca, senza sforzo alcuno. Simone Weil le ha sintetizzate in modo stupendo scrivendo già nel 1953, nel suo saggio L’Iliade o poema della forza, che coloro che le soddisfano “hanno, grazie alla loro stessa presenza, un potere che appartiene soltanto a loro”. Che cosa succede però se una di queste condizioni, o addirittura più di una, vengono a mancare? Se questo “potere” di cui parla Simone Weil cessa? Se non si è messi in condizione di comunicare? Se non si riesce più a contraccambiare gli atteggiamenti degli altri e di condividerne le emozioni? Se non si può più agire? È questo, ridotto all’essenziale, il senso delle domande che, con estrema lucidità, Walter Piludu ha posto non solo alla coscienza di ognuno di noi, interpellandola, non solo alla politica e ai suoi protagonisti, ma anche al Papa come interprete di un soggetto collettivo, la Chiesa cattolica, che nel corso della sua storia ha fatto della centralità della persona e della differenza di questo concetto rispetto a quello di individuo uno dei nuclei della propria missione etica e culturale. Non è un caso che l’unico a rispondere mostrando di aver colto il significato della questione sia stato mons. Angelino Becciu, Sostituto della Segreteria vaticana, a nome del Papa. Pur non potendo aderire all’idea che il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia siano cose distinte ma non distanti, egli ha infatti scritto di apprezzare il fatto che Walter Piludu stia vivendo la sua sofferenza non con una adirata ribellione, ma come “prova” della qualità della sua vita morale, e ha assicurato che “Il Papa è rimasto colpito dal fatto che lei, anche in questa tragica situazione e pur non avendo alcuna fede religiosa riesca a dare ancora un senso alla sua esistenza“. Si tratta di un passo avanti significativo, tanto da non potere essere sottovalutato o addirittura ignorato, ma che non è ancora una risposta. Se infatti è nella comunicazione, e solo in essa, che si apre la relazione, se cioè la relazione con l’altro è implicita nella stessa esistenza umana ed è una condizione sine qua non dell’essere persona, chi ne viene privato di che cos’altro dispone per poter essere ancora riconosciuto come tale? Walter Piludu ha il merito d’aver esposto, con estrema chiarezza e con estremo rigore, una questione che non riguarda lui solo, la sua specifica e dolorosissima situazione, ma che tocca un elemento cruciale che coinvolge noi tutti. Nel momento in cui si è privati della possibilità e della forza di istituire relazioni con se stessi, nell’ambito del proprio universo interiore, e con altri, e viene meno quella “profondissima comunicazione” interiore ed esteriore in cui consiste l’esistenza umana, rimane un solo e limitato aspetto per il quale si può ancora essere considerato una persona: la capacità di esprimere un volere, di manifestare il proprio libero arbitrio. Gli altri hanno il diritto di ignorare e soffocare questo residuo tratto distintivo del mio essere uomo? Gli altri, tutti gli altri, possono privarmi del mio diritto di finire la mia vita essendo ancora una persona, e non un semplice simulacro di essa? Chi dà loro il potere di trattarmi in modo esclusivamente naturalistico, come un semplice corpo da indagare e da preservare a tutti i costi, e non come unione indissolubile di questo corpo e della volontà della mia mente, ancora lucida e consapevole, che chiede di separarsi da esso? E se si ritiene legittimo distinguere e disgiungere il mio corpo da questa mia volontà si è sicuri, così facendo, di salvaguardare la mia dignità di persona? Questo, e non altro, è il nocciolo della questione, che esige una risposta. È o non è legittimo chiedere di potersi congedare dalla propria vita essendo ancora nella sua interezza una persona, unione indissolubile di corpo e psiche, e non una semplice entità fisica e materiale? |