L’architettura inefficiente [di Luigi Snozzi]
Luigi Snozzi, architetto ticinese di fama internazionale, premio Beton con il progetto per la palestra di Monte Carasso, premio Wakker e vincitore del Price of Wales della facoltà di Harvard per il progetto di Monte Carasso, laurea honoris causa in Architettura dalla Scuola politecnica federale di Zurigo e dalle Facoltà di Bucarest, Francoforte e Alghero, professore invitato a Ginevra, a Bucarest, a Trieste e poi ad Alghero, ha scritto con il filosofo Fabio Merlini, direttore della sede della Svizzera Italiana dell’Istituto Universitario Federale per la formazione e presidente della Fondazione Eranos, un libro dal titolo L’architettura inefficiente (Edizioni Sottoscala, Bellinzona 2014). In esso Snozzi fa un esplicito riferimento alla sua esperienza professionale in Sardegna con una valutazione critica che riteniamo opportuno far conoscere e riportare, al fine di avviare un dibattito sul tema del paesaggio e sui principi cardine ai quali si deve ispirare la pianificazione territoriale (a cura di Silvano Taglagasmbe). “La mentalità dilagante fra le commissioni paesaggistiche si basa sulla conservazione dell’esistente, con il risultato di inibire qualsiasi evoluzione. È quanto mi è accaduto col progetto di Cabras, in Sardegna, dove mi si chiese di costruire alcuni villaggi turistici. Vi era a disposizione un vasto territorio, posto in riva al mare, con una immensa spiaggia. Un luogo abitato solo da pescatori e agricoltori, privo di turismo. Appena giunto sull’isola, mi resi immediatamente conto di essere in Sardegna, e non in un’altra regione dell’Italia, per la presenza di quattro suoi elementi distintivi: i nuraghi, diffusi a migliaia, a forma di tronchi di cono in pietra, del duemila avanti Cristo; i novenari, simili a dei minuscoli villaggi, generalmente rettangolari, con la chiesetta nel mezzo e le case che delimitano un grande prato, dove la gente vi soggiorna per circa dieci-quindici giorni l’anno in occasione della festa del santo patrono a cui è dedicata la chiesa. Il terzo elemento sono le chiese romaniche, situate non all’interno ma fuori dei villaggi, mentre il quarto è costituito dalle torri genovesi sparse lungo la costa, costruzioni cilindriche del 1500. Ho quindi immaginato della grandi mura di cinta di un chilometro di lunghezza per 120 metri di larghezza, contenenti la nuova ‘chiesa’, cioè un albergo alto 65 metri. Da notare che in Sardegna una regola pianificatoria fissa l’altezza massima delle costruzioni a 6,5 metri. Così, nel mio progetto, mi sono limitato a ‘dimenticare’ la virgola…Poi ho disegnato i giardini dell’albergo, la grande piazza con i negozi, ed infine ‘il novenario’, le casette con i loro giardini, i campi da tennis e da football, l’ala adibita alla cultura con la sala congressi, e così via. Infine, all’interno del villaggio, ho introdotto le ‘oasi’, i posteggi – elemento per me principale – che ho situato sotto a dei palmeti. Ogni villaggio avrebbe avuto a disposizione 800 posteggi: la gente sarebbe potuta arrivare sul posto, parcheggiare l’automobile, per poi raggiungere il mare da rampe che avrebbero collegato il villaggio alla spiaggia. E quando si sarebbe riversata la massa dei turisti, di macchine sparse in giro non se ne sarebbe vista neanche l’ombra! Sarebbero state tutte raccolte nel recinto. Non a caso, l’idea del muro mi è venuta osservando i recinti delle pecore. Le auto non sono forse peggio delle pecore, quindi quale soluzione migliore se non rinchiuderle? Visto dal mare, il villaggio sarebbe apparso in questo modo: l’albergo-torre, la cinta che avrebbe permesso di mostrare le ondulazioni del terreno e dalla quale sarebbero sporte le palme e il tetto del palazzo dei congressi… Lo spazio definito dal mandato per costruire i villaggi turistici era sei volte più grande di quello che io utilizzai. In quella porzione di terreno ridotta, riuscii a sistemare tutto quanto richiesto, preservando così l’agricoltura del luogo. Perché racconto tutto questo? Per dire che con le regole esistenti un’idea del genere è impossibile da realizzare: in Sardegna ogni casa deve avere circa 10 mila metri di terreno intorno, dev’essere circondata da alberi perché non si veda e, come detto, non dev’essere alta più di 6,5 metri. Così il grande territorio verrà invaso da questa sorta di cancrena che è l’edilizia diffusa e sarà distrutto completamente. È un esempio della mentalità tipica delle commissioni paesaggistiche. Il problema di fondo è il rapporto con la natura. Vi è una visione statica di questo rapporto e una visione dinamica. I vincoli imposti in Sardegna rispondono ad una visione statica, mentre il progetto ad una visione dinamica”. (pp. 69-71) |