La passività dell’oggetto [di Maurizio Onnis]
Rina è del 1949. È nata e vive qui in paese, a Villanovaforru. Qualche giorno fa, durante la riunione mensile del gruppo di lettura, discutevamo de La bella estate di Cesare Pavese. Un racconto lungo, pubblicato proprio nel 1949, l’anno di nascita di Rina, e scritto qualche anno prima. A Rina il libro non è piaciuto, ma non è questo il punto. Il racconto è ambientato a Torino, tra i proletari della città delle fabbriche, nell’Italia povera e senza grilli per la testa dell’epoca. La storia è semplice, i protagonisti molto comuni, i loro bisogni essenziali, le emozioni non elaborate. Rina, che è la decana del gruppo di lettura, capisce quei tempi perché li ha vissuti, anche se non a Torino e non in fabbrica. E ce ne parlava come Pavese parlava dei suoi. Rina ricorda che, ancora alla fine degli anni Cinquanta, a Villanovaforru andavano ogni sera alla fonte a prendere l’acqua con le brocche: l’acqua doveva servire a lavarsi e cucinare. Ricorda che i panni si lavavano al torrente. Che lei giocava per strada con le amiche e due ghiande diventavano nel gioco una coppia di buoi. Che si andava scalzi. Che il carrettiere impiegava due giorni per arrivare a Cagliari, caricare le merci e tornare in paese, dove distribuiva a tutti i beni di prima necessità richiesti. Che ogni tanto si faceva vedere a Villanovaforru il cantastorie: apriva davanti ai loro occhi dei grandi cartelloni e se ne serviva per illustrargli le faccende del mondo. In paese, zero televisione. Alla fine degli anni Cinquanta. Pavese è stato messo rapidamente da parte e la discussione ha preso un’altra piega. Abbiamo chiesto a Rina se si sentisse migliore di allora, se lei e i suoi coetanei si sentano migliori di allora. Ma è tutto qui. Sull’altro piatto della bilancia, Rina mette il fatto che allora si viveva tutti assieme, mentre adesso, sebbene tutti si conoscano, ognuno vive chiuso a casa sua. Calcola che la gente ha sempre il muso, mentre allora avevano fiducia, e che oggi i figli, disabituati al sardo, a volte non capiscono i padri. Aggiunge che quando lei era ragazzina tutti sapevano fare tutto, mentre oggi molti sanno fare il proprio e nessuno sa più fare ogni cosa. Soprattutto dice che a quel tempo ogni abitante di Villanovaforru aveva un lavoro, mentre ora in tanti sono disoccupati e altrettanti si arrangiano con i lavori socialmente utili elargiti dal municipio. Insomma, nel complesso, Rina dice che lei non si sente migliore. Le abbiamo chiesto come sia possibile. Come sia possibile che tutte le opportunità maturate in decenni di sviluppo non abbiano dato i benefici sperati. Come sia possibile, meglio, che loro non ne abbiano approfittato.«Perché non ne avete approfittato?».Rina ha impiegato un secondo a ispondere. «Perché non c’è stato il tempo».Con questa fulminante battuta, la donna ci ha rovesciato addosso in un istante un intero trattato di antropologia. Dalla fine degli anni Cinquanta, dal momento cioè in cui Villanovaforru viveva ancora in uno stato di relativo isolamento dal mondo, alla fine degli anni Settanta, in cui tutto era ormai definitivamente cambiato, sono passati appena due decenni. La modernità e i suoi addentellati hanno investito e travolto il paese in una manciata d’anni. Pochi persino se misurati sulla non lunga vita di un uomo. Non c’è da stupirsi che Rina non si senta affatto responsabile per sé e per la sua generazione. Né lei né i coetanei potevano fare un salto in avanti così grande. Non erano pronti. Non erano capaci. Erano tarati con altri criteri. Non avevano i mezzi per assorbire l’impatto di quest’accelerazione della storia e addirittura trarne vantaggio.Letteralmente, «non c’è stato il tempo». La comunità di Villanovaforru è oggi in mezzo al guado. Ha subito – ma forse sarebbe meglio dire che si è lasciata sedurre – l’opera di deculturazione attuata dalla modernità: rapida, apparentemente indolore, silenziosa. Adesso sente che qualcosa non ha funzionato, che qualcosa di brutto è accaduto, ma non razionalizza a sufficienza, non comprende ancora appieno. Gli uomini sbuffano, mugugnano, sperando che il peggio passi presto, ma senza avere in testa una meta chiara, senza sapere a cosa vogliono approdare. Indietro chiaramente non si torna e avanti non si può andare: mancano i mezzi per governare la crisi. Ecco perché la comunità è in mezzo al guado. Ha perso la propria antica autosufficienza culturale, una visione del mondo autonoma che solo lo sguardo falso della modernità le ha fatto intendere come obsoleta, limitata, fungibile. E l’ha sostituita con niente. Il denaro, l’istruzione, i trasporti, il web sono altrettanti strumenti in mano a chi non sa usarli. E se ieri non c’è stato tempo per adattarsi, il mondo mostra oggi ancora meno pazienza con chi non si muove. Lo scorso autunno, lo scrittore indiano Pankaj Mishra ha pubblicato un lungo intervento sul Guardian concernente il fallimento dell’Occidente fuori dall’Occidente. Chiedeva a se stesso e ai lettori come ci si sia convinti che Asia e Africa potessero in poco tempo applicare e praticare modelli economici e forme di governo il cui perfezionamento aveva richiesto a Ovest secoli di storia, guerre, rivoluzioni e sacrifici immani. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti che secoli di storia non si saltano per pio desiderio, non si saltano con l’ingegneria sociale. Dopo aver distribuito le colpe e fustigato tanto la rapacità dei colonizzatori quanto l’acquiescenza dei colonizzati, Mishra terminava la sua analisi chiedendo come minimo «un riesame dell’idea capitalistica di “sviluppo” e l’esplorazione delle tradizioni intellettuali soppresse». Una correzione, insomma, della strada intrapresa. Non credo che per Villanovaforru e la Sardegna sarà sufficiente. L’unico modo per uscire dal guado e ancorarsi a una nuova riva è realizzare finalmente la «rivolta dell’oggetto», riappropriarci del nostro tempo e delle nostre decisioni, riprenderci la nostra storia, contestualizzare lingua e cultura, rimpadronirci del territorio e del suo uso, perché sia il modello occidentale a piegarsi a noi e non noi a esso. Altrimenti – penserebbe probabilmente Pira dall’altro mondo – ciò che avremo realizzato sarà stata non la «rivolta», ma la «passività dell’oggetto».
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“Siete migliori di allora”? la risposta poteva abbracciare due ambiti differenti ed i contenuti sarebbero potuti essere le due facce della stessa medaglia; la risposta poteva essere assolutamente personale e forse troppo intima per essere condivisa durante l’incontro dedicato a Cesare Pavese; poteva essere invece di carattere generale: noi gente di oggi siamo migliori di coloro che alla nostra stessa età vivevano 60 anni fa a Villanovaforru?
il progresso in cosa ci ha reso migliori?
Non si gioca più con le biglie in strada, non si va a prendere l’acqua al torrente, non si lavora tutti dalla mattina alla sera, indipendentemente dall’età, non viviamo più in grandi case piene di bambini e di vecchi, di zii e zie, tali per rispetto e non per parentela.
60 anni fa c’era il freddo da combattere, la fame con cui fare i conti, l’ignoranza che rendeva felici nel poco, solo per la mancata percezione dei bisogni.
Esiste un indicatore socio economico, credo si chiami indice di benessere sociale, che non indica quanto un Paese sia diventato più ricco nel tempo, in termini di PIL, indica quanto le persone possano sentirsi “meglio” oggi rispetto al passato; riguarda l’ istruzione, la sanità, la facilità di comunicazione, la libertà di movimento e di pensiero; riguarda la consapevolezza di sé e degli altri; riguarda la facoltà concessa a tutti di costruirsi un presente ed un futuro a nostra misura….
mi viene in mente il principio del libero arbitrio….l’essere umano è creato libero, libero di scegliere il bene ed il male, libero di essere buono e rispettoso, ma anche di essere sordo alle esigenze del prossimo e del mondo in cui si trova a vivere.
Ritengo che tutti si possa essere migliori di come si era una volta, perché gli strumenti a disposizione per esserlo li abbiamo oggi più di allora; però ad ognuno è data facoltà di utilizzo; la facoltà può essere attiva e quindi essere la mente che li fa muovere, o passiva e quindi fagocitati dagli “oggetti” in cui ci troviamo impantanati.
Abbiamo la facoltà di fermarci e riflettere. Riflettere sul tempo che passa per evitare di arrivare a sessant’anni e rendersi conto che il tempo è volato e non ci ha dato la possibilità di diventare migliori.
Sinceramente avere la certezza delle proprie possibilità, ritenersi cittadino del mondo, libero di pensare e di agire, di vestirsi quando fa freddo, di riposarsi la sera leggendo un buon libro o ascoltando la musica che si vuole, come si vuole, passeggiare in città, la tua o quella degli altri, o in campagna o in spiaggia; vedere i propri figli felici nello sport, nel gioco o sui banchi di scuola fino all’Università, se vorranno e non sui campi o in fabbrica per forza e non per scelta, è una grande conquista.
Sta a noi trasmettere il senso del rispetto e dell’amore; rispetto per le persone e per le “cose”, attenzione alle piante, ai fiori agli animali, all’aria che si respira e a ciò che si mangia; insegnare al riutilizzo degli oggetti e degli abiti….Da bambina vestivo i panni dismessi di mia madre e di chi, con buon cuore, regalava ciò che più non si metteva, così come i miei ragazzi fanno oggi (cambiano le marche, ma è la stessa cosa).
Anche oggi si vive tutti insieme, se si sceglie di farlo. La tecnologia ci permette di stare accanto a persone lontane migliaia di chilometri, parlandoci e vedendoli….60 anni fa, forse qualche lettera o qualche vecchia fotografia compensavano la mancanza.
A Natale abbiamo regalato uno smartphone a mio padre, 80 anni suonati, perché voleva provare a fare ciò che i suoi amati nipoti fanno con semplicità…inviarsi foto e messaggi anche se di mezzo ci sta il mare…
Ora con le sue dita secche di tempo e di lavoro, con le sue mani che hanno sofferto il freddo delle campagne con fatica cerca di impratichirsi con lo schermo touch…
E’ impagabile il sorriso che spunta quando legge i messaggi su whatsapp o ascolta i saluti dei nipotini che non sono con lui….
Il progresso se utilizzato per il nostro benessere sa e può renderci migliori.