La satira degli scimpanzé [di Raffaele Deidda]

scimpanzè

Augusto Monterroso, scrittore latino-americano “favolista”, ha sempre sostenuto che le sue favole non contengono una morale perché la favola non deve avere la pretesa di moralizzare. Costituisce, anzi, una sorta di anti morale che comunque ironizza sulle forme e sui comportamenti sociali. E’ molto interessante, in particolare, la lettura della favola “Lo scimpanzé che voleva essere scrittore satirico”: Viveva nella foresta uno scimpanzé che voleva diventare scrittore satirico. Aveva studiato molto ma ad un certo punto si rese conto che per diventare un vero scrittore di satira aveva bisogno di conoscere meglio gli altri animali. Cominciò allora a visitarli con regolarità partecipando anche ai loro ricevimenti. Li osservava attentamente mentre erano distratti conversando fra loro con un bicchiere in mano.

Essendo un grande intrattenitore, capace di fare incredibili piroette, gli altri animali lo trovavano simpaticissimo. Era bene accolto ovunque e lui perfezionava ogni giorno di più la sua capacità di essere sempre il benvenuto. Tutti adoravano la sua conversazione e quando lo vedevano arrivare era oggetto di festeggiamenti: sia da parte delle scimmie che dai loro mariti, oltre che da tutti gli altri animali della foresta. Lo scimpanzé era sempre molto dialogante anche con quelli che avevano opinioni diverse dalle sue in materia di politica internazionale e interna. Ascoltava tutti con attenzione e intanto acquisiva informazioni sull’indole, sulla mentalità e sui comportamenti degli altri animali, utili per descriverli nei suoi futuri scritti satirici.

Arrivò il momento in cui pensò di essere il più grande conoscitore della natura animale, senza che gli altri si fossero mai accorti di nulla. Decise, per iniziare la sua opera, di fare ironia sui ladri. Prese di mira la gazza e si divertì a scrivere cose spassosissime, suscitando l’ilarità degli altri animali. Si accorse però che le gazze non trovavano divertente essere sbeffeggiate, seppure elegantemente, da lui. Smise quindi di fare satira su di loro. Pensò allora di scrivere sugli opportunisti e li impersonò nel serpente, animale con cui conservava un buon rapporto attraverso la sua arte adulatoria che gli consentiva di tenerselo amico. Rifletté però che i suoi amici serpenti avrebbero sicuramente colto l’allusione. Rinunciò ancora.

Provò poi con i lavoratori compulsivi pensando all’ape, insetto che lavorava stupidamente senza sapere né perché né per chi. Temette però che le sue amiche api potessero offendersi e allora le paragonò alla cicala, insetto egoista che passa il suo tempo a cantare, dandosi anche arie da poeta. Immaginò poi che sarebbe potuta piacere la satira sulla promiscuità sessuale, da far impersonare alle galline che razzolavano tutto il giorno cercando di conquistarsi le attenzioni del gallo. Anche le galline, però, erano state carine con lui, l’avevano spesso ricevuto con molta cordialità e ospitato. Non se la sentì di offenderle e anche questa volta rinunciò alla satira.

Era riuscito a scrivere un vero e proprio saggio sulle debolezze e sui difetti degli animali ma, di fatto, non poteva rendere nessuno di essi destinatario delle sue ironie perché erano tutti amici che mangiavano allo stesso tavolo con lui. Smise infine di fare lo scrittore satirico e si dedicò a materie come la Mistica, l’Amore e ad altre cose del genere. Vedendo questo cambiamento, si sa com’è la “gente”, gli animali della foresta dissero che era diventato pazzo e smisero di invitarlo a casa loro e alle loro feste.

E’ piuttosto evidente, in questa favola, che la satira non è diretta ai costumi dei vari animali-personaggi ma al pavido scrittore satirico, molto ligio al “politicamente corretto” e incoerente nel voler satireggiare senza colpire, fino alla decisione di abbandonare la satira e rifugiarsi nel misticismo, dove non c’è alcun tipo di conflitto e di scontro. Ben lontano da quel “ludere et ledere” capace di deridere i potenti con sapiente sarcasmo. Soprattutto se presuntuosi, falsi, incapaci e disonesti. Seppure contro le intenzioni di Monterroso, una morale la favola sembra comunque averla: Chi compiace i potenti prima o poi viene messo da parte da questi e cade in disgrazia.

Si ha infatti conoscenza diffusa di fatti e persone che testimoniano questa morale. Appaiono talvolta tardive e inopportune le conversioni alla satira e al sarcasmo nei confronti del potente che ha deluso le aspettative individuali, come pure le riconversioni al servilismo di chi ha precedentemente esercitato ironia nei confronti di personaggi da “ledere”, poi diventati potenti e in grado di beneficiare gli adulatori.

L’ironia e la satira sono invece delle vere e proprie valvole di sfogo per lenire tensioni, angosce e paure, come affermava Eugène Ionesco: “Dove non c’è umorismo non c’è umanità: dove non c’è umorismo (questa libertà che ci prende, questo distacco di fronte a se stessi) c’è il campo di concentramento.”. Per praticarle, però, bisogna essere liberi dai condizionamenti dei potenti o pseudo tali e, soprattutto, occorre conoscere le debolezze e i difetti umani attraverso se stessi. Il rischio, altrimenti, è quello di cadere nell’umorismo a basso costo e di bassa lega, che magari fa ridere ma non fa riflettere. E’ ciò che fanno i guitti interessati a campare al meglio dentro il sistema che fanno finta di sbeffeggiare. Non può, però, chiamarsi satira.

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