Fratello & Sorella [di Francesca Gallus]
Marzia e Alfiero Paradisi nacquero lo stesso giorno e lo stesso mese, ad un anno di distanza l’uno dall’altra. La madre aveva ventiquattro anni alla nascita della primogenita, venticinquenne, un anno dopo, si tagliò i lunghi capelli biondi e cambiò completamente fisionomia. Il padre, giovane assistente del procuratore, divorato dall’ambizione, prese a lavorare in modo ossessivo, frequentando casa propria il minimo indispensabile, per mangiare e dormire, e spesso disertandola anche per questo. Nonni e zii dei due bambini vivevano in un’altra città, non lontana ma difficile da raggiungere a causa dei limitati mezzi dell’epoca e dello stato delle strade.
La città di nascita dei Paradisi era in forte espansione grazie alla spinta dell’urbanizzazione e della congiuntura economica che consentiva grandi guadagni agli speculatori edilizi. La famiglia abitava in un enorme condominio, di una qualche pretesa, nella prima periferia. Casa nuovissima, intorno campi ancora liberi, frequentati da cani randagi e, saltuariamente, dai pastori che non avevano ancora avuto tempo di crearsi nuovi percorsi.
Lidia Paradisi Moretti, smesso di studiare, languiva a casa, solitaria ed esasperata dalle faccende domestiche e dall’accudimento dei figli.Il telefono fu per molto tempo il suo solo collegamento con il mondo. Durante la primissima infanzia i bambini furono trattati come gemelli, vestiti uguali, e ugualmente nutriti, a tutto nocumento della maggiore che, seppure infante, soffriva per il disconoscimento della sua identità, per la mancata prevalenza sul fratello minore, cui sentiva di essere superiore, e per la mortificazione della sua femminilità, costretta in calzoncini corti e magliettine di cotone a righe. Anche i giochi, per economia e pigrizia, venivano omologati per i due bambini; ebbero quindi cose che potevano adattarsi ai due sessi, in modo che il loro tempo assieme potesse essere condiviso.
Marzia desiderava ferocemente possedere bambole parlanti e servizi da tè, dovendosi invece accontentare di cavalli a dondolo, teatri di burattini, scatole di costruzioni. L’affetto dolce di cui il fratello era oggetto strideva palesemente con l’autorità brusca che costituiva invece la cifra dei suoi rapporti coi genitori. La domenica mattina, giorno che il padre passava, di regola, in casa, la madre restava a letto fino a mezzogiorno ed i bambini, in pigiama, dovevano rimanere nella loro stanza per non disturbare il lavoro del padre, svolto fra carte e libri sul tavolo di cucina.
Al pomeriggio, se bel tempo, la famiglia passeggiava in centro, fra i negozi chiusi; Marzia per mano alla madre, all’estremo destro del gruppo, Alfiero al centro, per mano ad entrambi i genitori. All’incirca quando Marzia ebbe cinque anni il condominio fu popolato bruscamente da un gran numero di bambini di età compatibili con quella dei due fratelli ed iniziò così la loro vita sociale. Appena poteva Marzia barattava piccole cose con le altre bambine, avide di giochi da maschio, ottenendone in cambio forcine colorate, inutili per i suoi capelli corti, perline, tazzine senza manico.
Iniziò a costituire il suo tesoro segreto, custodito in una scatola di biscotti, nascosto nell’armadio, dietro la pila delle mutande. La sua rivalità col fratello, silenziosa ma tenace, iniziò ad esprimersi attraverso minimi dispetti, inavvertibili agli adulti ma ben compresi dagli altri bambini, nei giochi in cortile del pomeriggio, per i quali ben presto Alfiero divenne un paria. Favoriti dal mese di nascita i due Paradisi furono iscritti alla stessa classe elementare, soluzione comoda per la madre, che poteva così avere impegnate le stesse ore per entrambi, con gli stessi compiti da preparare, stessi colloqui a cui presentarsi, e doveva tenere a mente meno adempimenti, stesse tasse da pagare, stessi libri da comperare, stesso compleanno della maestra.
Questa situazione conveniva grandemente a Lidia Paradisi Moretti, avendo lei, nel frattempo, trovato nel negoziante di alimentari un amante affettuoso, che le permise di sopportare la sua situazione con maggior serenità e di accogliere con un sorriso il marito quando sedeva, ogni sera, di fronte alla minestra fredda. A scuola Marzia credette di poter trovare la sua rivalsa diventando la più brava della classe; si impegnò nello studio e nell’apprendimento di ogni materia, imparò a scrivere con ottima grafia, a leggere fluentemente e a disegnare ogni figura del libro di lettura con grande precisione. Questa tattica si rivelò perdente: essere presa ad esempio dalla maestra le procurò l’antipatia dei compagni, la facilità con cui affrontava i compiti a casa risolse la madre ad affidare a lei la cura del lavoro del fratello; di contro i genitori non dimostrarono nei suoi riguardi né l’ammirazione né l’orgoglio che si era figurata di suscitare nelle sue fantasticherie estive. Si ostinò comunque in questo comportamento faticoso e inutile come in una missione suicida.
Alfiero, a scuola, frustrato dai successi della sorella, inarrivabili per la sua mente semplice penalizzata ulteriormente dall’età, sviluppò in modo esasperante la sua tendenza all’autocompatimento, alla lagna, al pianto. Di nascosto, ad ogni occasione favorevole, Marzia prese a punire fisicamente il fratello, con schiaffi, pizzicotti e graffi profondi. Terrorizzato dalla sorella maggiore Alfiero non rivelò mai ad anima viva le angherie che era costretto a subire. Col passare del tempo e col delinearsi del carattere imbelle del fratello, che mai reagiva alle sue provocazioni, nella mente di Marzia si fece strada la certezza che la sua vita senza Alfiero sarebbe stata sensibilmente migliore. Al secondo anno di scuola, che la vide promossa mentre Alfiero ripeteva la prima classe, mise a punto una serie di magie speciali, che avrebbero potuto far sparire per sempre dalla sua vita quel noioso piagnucolone.
Per tutta la stagione invernale credette che fosse possibile che di notte, se apriva la finestra durante il temporale, il fratello venisse risucchiato fuori dalla tormenta e trasportato altrove, in un paese lontanissimo. Purtroppo il suo sonno sereno non le permise mai di svegliarsi durante la notte, nemmeno nel corso del più violento dei nubifragi, e d’altro canto suo fratello, di riposo più leggero, non si trovava mai nella stanza in quelle occasioni, avendo trovato rifugio, sin dalle prime gocce di pioggia, nel letto dei genitori. Scoprì allora che la posizione dei suoi tesori all’interno della scatola di biscotti poteva rappresentare, a volte, un presagio funesto.
Si trattava di riuscire ad aprire la scatola proprio nel momento in cui le perline erano disposte in una determinata sequenza di colori: allora Alfiero sarebbe stato preso da un tremito convulso e si sarebbe trasformato in un ragno peloso, fuggendo dalla stanza dei giochi per rifugiarsi in qualche oscuro buco. Purtroppo la sequenza di colori che avrebbe permesso la mutazione non si verificò mai, per quanto tentasse. Pensò allora che se avesse guardato il prete durante l’elevazione il suo peccato avrebbe spinto Dio a punirla, rimpicciolendo il fratello e incatenandolo per sempre all’interno del tabernacolo, dove si sarebbe nutrito di ostie consacrate e dissetato col vino dell’eucarestia.
Ma il peso di un sacrilegio così grande le era insopportabile e per tutto l’anno si inginocchiò con maggiore devozione e strinse forte gli occhi per non cadere in tentazione. Leggeva e rileggeva le storie dei bambini trasformati in cigni dalla potente Fata Morgana o dei fratellini cattivi diventati corvi, per carpire, fra le righe, il segreto di quegli incantesimi fatali. Sconfitta rinunciò alla magia e iniziò a confidare nella potenza del pensiero, sedotta dalla scoperta della telepatia.
Se Alfiero beveva dell’acqua pensava intensamente che il bicchiere si sarebbe frantumato fra le sue labbra e lui, ingerendo col liquido minuscoli frammenti, sarebbe diventato una statua di ghiaccio, per effetto del vetro che il sangue avrebbe trasportato al cuore. Quando soffiava il vento del nord iniziava a pensare che una raffica più violenta l’avrebbe sollevato e rapito proprio quando lei si trovava in prossimità di un sostegno che avrebbe potuto afferrare saldamente per non fare la stessa fine.
Un giorno di maggio, alla fine del terzo anno di scuola, i bambini scendevano di corsa le scale di casa, per raggiungere gli amici in cortile. La fretta era tale che Alfiero aveva dimenticato di allacciarsi le scarpe, ma nell’uscire sul pianerottolo Marzia si fermò un istante, incerta se tornare indietro a prendere un gioco nuovo, che avrebbe volentieri mostrato alle amiche. Distratta da questi argomenti dimenticò di pensare che il fratello avrebbe potuto inciampare e ruzzolare per le scale, trasformandosi nella caduta in una palla colorata che i bambini avrebbero preso a calci d’allora in avanti. Poi, trascurando il gioco nuovo, preferì correre di sotto, a distanza di una rampa dal fratello che la precedeva e che, inciampando nei lacci, perse l’equilibrio e ruzzolò per le scale.
Il lutto schiantò come un colpo d’ariete la piccola comunità del condominio. La felicità si sgretolò, la libertà perse colore come persero colore i capelli del padre ed il suo sogno di una brillante carriera. Lidia, passato il momento di sperdimento e di confusione, aggravati dalla presenza continua di vicini e parenti, sentì che la sua vita non poteva continuare in quella città di tragedia ed implorò il marito di tornare nella loro piccola provincia d’origine. Si vendette la casa, si fecero i bagagli, si regalarono tutti i giochi, i vestiti ed i mobili della camera dei bambini alla parrocchia, dietro la promessa del prete di recitare da allora, per dieci anni, una messa in suffragio, nello stesso giorno di maggio, anche con la chiesa vuota.
Nella nuova casa Marzia ebbe una stanza tutta per sé, di cui poté scegliere gli arredi, tutti rosa e bianchi. Le fecero crescere i capelli, che di regola venivano legati in una lunga treccia, bionda come quella delle foto da bambina di Lidia. I nonni, che stavano ora vicino di casa, le regalarono molti vestiti ed ebbe il permesso di andare a scuola di danza. Fece il suo primo saggio a maggio dell’anno seguente. Il padre, cambiato lavoro, si riavvicinò a Lidia, che terminati gli studi trovò un impiego, poco impegnativo ma di soddisfazione.
Marzia crebbe come desiderava, il dolce affetto della madre e l’orgoglio del padre per la sua intelligenza la stimolarono ad impegnarsi a fondo negli studi, nei quali conseguì risultati eccellenti. Non si parlò mai più di Alfiero, non si mise più piede nell’altra città, si festeggiò, ogni anno, il compleanno di Marzia. Marzia, senza dolore, ogni tanto ricordava, come in un sogno, un bambino col quale aveva vissuto quando era piccola, ma dimenticò il suo nome. Gli sopravvisse ottant’anni.
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