Abbiamo èlite ma non ceto dirigente [di Nicolò Migheli]
La settimana scorsa la RAI ha ricordato Adriano Olivetti con uno sceneggiato. Figura singolare di imprenditore e politico eretico. Nell’Italia degli anni Cinquanta, Olivetti realizzò nei suoi stabilimenti un sistema di relazioni industriali che destò scandalo. Egli partiva dall’assunto che la fabbrica diventa produttiva e innovativa se tutti quelli che vi lavorano vengono messi nelle migliori condizioni. In tempi di grande sfruttamento fece dei dipendenti il punto centrale delle sue politiche. Per loro costruì fabbriche ariose, asili, biblioteche, case vacanza; impose che il management avesse remunerazioni che non si distaccassero troppo da quelle degli operai. Immaginò la fabbrica come centro propulsore del territorio in cui aveva sede. Tentò l’avventura in politica con il Movimento di Comunità, ma la sua morte precoce stroncò l’esperimento. La sua proposta industriale e politica venne distrutta. I poteri forti, quelli veri di Valletta e Cuccia, del governo democristiano del tempo, abbandonarono la Olivetti in difficoltà, uccidendo scientemente un settore strategico come l’elettronica a vantaggio della concorrenza americana. Quell’esperimento di politica economica e sociale andava distrutto, era la dimostrazione evidente di un rapporto differente tra èlite e territorio, tra eletto ed elettore. Adriano Olivetti è il testimone di come una èlite possa diventare ceto dirigente, facendosi carico di esigenze generali, restituendo parte quel che ha avuto. Quello che all’Italia post unitaria è mancato. Quello che in Sardegna è assente da cinquecento anni. Un ceto dirigente che abbia il suo punto di riferimento nella coscienza nazionale. Abbia un sguardo che veda l’Isola e i Sardi come centro del proprio agire politico. L’intermediazione e la dipendenza delle èlite sarde ha avuto eccezioni. La “Sarda Rivoluzione” è l’esempio più insigne, rinnegata e repressa poi da uno dei suoi protagonisti: Efisio Pintor Sirigu, noto Pintoreddu. Altri tentativi, pur con grandi errori, furono il sardismo del primo e secondo dopoguerra, il Piano di Rinascita prima che venisse stravolto dai dictat romani favorevoli all’industrializzazione per poli e agli investimenti dei petrolieri. Ordini a cui le èlite del tempo non opposero resistenza. Altre eccezioni furono la giunta di centrosinistra di Mario Melis negli anni Ottanta e la giunta Soru dal 2004 al 2009. Tentativi spazzati da interessi coalizzati che superavano la dicotomia destra-sinistra, favorevoli al mantenimento di status quo ante che garantiva e garantisce rendite di posizione, equilibri stratificati, cointeressi con gruppi italiani e paesi esteri. Una scelta di intermediazione, fatta coscientemente, frutto di colonizzazione culturale e di cooptazione dentro poteri esterni vissuti come vincenti e non contrastabili. In questo vi è continuità con la piccola nobiltà di origine spagnola e poi piemontese, che governava l’Isola nei secoli passati. Un comportamento a cui non sono estranei neanche i cosiddetti corpi intermedi: sindacati, organizzazioni professionali, la stessa Chiesa Cattolica; ma è la sfera del politico quella che mostra in modo deciso la dipendenza contrattata. Chi viene eletto con i partiti tradizionali, sia in Consiglio Regionale che in Parlamento finisce col rispondere a quello che Robert Michels chiamava “La ferrea legge dell’oligarchia;” non avendo un ancoraggio in una coscienza nazionale, il riferimento resta solo il gruppo. Se ne adottano comportamenti, legami ed interessi. Christopher Lasch, nel suo “La ribellione delle èlite” spiega bene le motivazioni . Nei momenti di grande crisi come questi, per chi fa parte della èlite, l’unica via di riuscita che intravede è quella personale e l’appartenenza a gruppi di interesse trasversali ed oligarchici. Comportamento che si traduce in azioni di grande impatto sociale. Perché finanziare la scuola pubblica se per i miei figli posso permettermi quella privata? Così per la sanità, per le università. Nel contempo però si finanziano quei privati che offrono i servizi a pagamento e che fanno parte della stessa oligarchia. In Sardegna, dove la crisi è perenne, è un susseguirsi di comportamenti simili. Quando nella prima metà dell’Ottocento, venne abolito il feudalesimo, l’indennizzo ai nobili venne fatto pagare alle comunità. Un riscatto talmente esoso che molte furono le ribellioni. Poi le miniere date a gruppi stranieri; i finanziamenti per lo sviluppo, invece che ad imprese locali, destinati ai grandi gruppi industriali del nord. Oggi la svendita dei terreni agricoli per le energie alternative e la modifica del Piano Paesaggistico Regionale, chiamato provocatoriamente dei Sardi. Campi da golf e milioni di metri cubi sulle coste e nelle campagne a beneficio di fondi sovrani esteri e della finanza grigia. Una cessione di sovranità. Una privatizzazione del bene comune continua, dalle Chiudende ad oggi, in cui l’èlite avrà il proprio tornaconto personale. Il resto dei Sardi, costretti in situazioni di estrema precarietà, obbligati a pietire un contratto a tempo, oppure un’assistenza che passa inesorabilmente dentro il meccanismo clientelare. Chi ne ha le capacità emigra, fugge da un ambiente chiuso e inaccessibile. Questi sono i frutti avvelenati dell’assenza di un ceto dirigente nazionale. Oggi in tempi in cui i vari partiti tentano di darsi vernici indipendentiste come in altri tempi furono sardiste, si rincorre la figura di Giovanni Maria Angioy; si vorrebbe che un monumento lo ricordasse in ogni piazza. Si sbagliano, il loro modello perfetto è Efisio Pintor Sirigu. Lui sì organico a questa èlite. Pintoreddu padre della patria! |
Nicolò , la Giunta di Mario Melis era di sinistra,socialista e sardista. Per il resto, condivido molte delle tue valutazioni e penso di scrivere qualcosa in proposito.
Osservando la Sardegna, o meglio, i sardi da fuori, spulciando puntigliosamente sulle vicende interne, non si puó, dopo anni, che fare le stesse conclusioni dell’autore di questo Post.
In qualche modo per altro ne scrissi degli scorci identici qualche anno fá, riportando quanto personaggi che hanno vissuto gli effetti dei due conflitti Mondiali in cui si trovò coinvolta l’Italia. Cominciando dal capo stipite degli agnelli: Giovanni Agnelli (1866-1945) all’amministratore delegato dott. Vittorio Valletta che diceva: – voglio che tutti i miei operai la domenica facciano bollire la pignatta del brodo con la carne-
Oppure il presidente dell’ENI Enrico Mattei, anche lui preso da illuminata visone, disse in molte occasioni: -voglio che i miei operai portino tutti la camicia bianca-
Come loro altri, pochi purtroppo, traghettarono la nazione Italiana fra i primi industrializzati al Mondo.
Dopo di loro nessuno ne ha seguito gli esempi, abbiamo perso lo stampo, nessuno piú operò mosso da una visione di sviluppo comunitario , per cui la decadenza generale é stata inevitabile.