La Repubblica 23 marzo 2015. Il presidente del Fai: “Bianchi Bandinelli lo chiamavano “conte rosso” perché era comunista ma di origine aristocratica. Non si perdonò mai di aver dovuto fare da guida a Hitler durante una visita in Italia“Andrea Carandini.
È un pomeriggio limpido che Roma sa regalare. Sulla salita del Quirinale, non lontano dalle Scuderie abita Andrea Carandini, presidente del Fai, nel palazzo che in parte fu del nonno: Luigi Albertini, ricordato con una lapide all’entrata: “Mio nonno venne qui nel 1926 dopo che il fascismo lo cacciò dal Corriere della Sera. C’è restato fino alla morte, nel 1941. Ho scarsi ricordi. Viveva al piano di sopra. Andavo a trovarlo, mi teneva sulle ginocchia. Mi iniziò alla lettura di Topolino“.
Nonostante l’aria solida che emana Carandini mi appare come il risultato di un compromesso tra una vita felice sognata e una vita annoiata. In agguato vi è pur sempre la solitudine. Scruto la sua perentorietà. E penso alle difese che si nascondono dietro certi toni.
Percepisco un velo di superbia intellettuale nelle sue parole. Gli chiedo, alla fine della nostra conversazione, se si sente un privilegiato. “Lo sono, lo sono“, risponde. “Ma non ho sensi di colpa. Sono stato agevolato dalla vita, ma quello che ho avuto alla fine me lo sono guadagnato“.
Il pane dell’antichità fra i denti di un singolare individuo moderno che ha dedicato larga parte della vita all’archeologia. Mentre accarezza orgoglioso una pila dei suoi libri – il professore ha scritto e divulgato con grande effusione – penso alla definizione che Ernst Jünger ha dato dell’archeologia come una specie di scienza del dolore.
La trova adeguata per spiegare il suo lavoro?
“È strana. Non l’ho mai sentita. Il dolore mi fa pensare piuttosto alla psicoanalisi. Anche lì si scava, si cercano radici, fondamenta. Non c’è dubbio che l’analisi non conduce alla felicità. L’ignoranza, semmai, porta alla felicità animale. Più si conosce, temo, più si soffre. E l’archeologia in qualche modo si può accostare alla psicoanalisi. A Freud, soprataristocratiche tutto, che ne fa una perfetta metafora dello scavo interiore. A me ha sempre colpito il suo studio, prima a Vienna e poi a Londra, sembra l’antro di un sito archeologico”.
Freud fece archeologia del soggetto.
“Attraverso il sogno. E anche analizzando i suoi sogni”.
Che credibilità attribuisce al sogno?
“Tantissima. La mia vita da archeologo è stata orientata soprattutto da due sogni che feci da bambino. E in entrambi c’entrava mio padre”.
Li racconti in breve.
“Sono nell’Underground di Londra, la città dove mio padre svolgeva il lavoro di ambasciatore. Ho 9 anni. Sogno di scendere una lunga scalinata. Cerco l’uscita ma vado sempre più giù. Quasi una discesa agli inferi. Arrivo davanti a una porticina. L’apro. Improvvisamente mi appare un cimitero con degli uomini che scavano. Dissotterrano delle dame cui tolgono i monili dal collo e dalle braccia. Sono come paralizzato. Poi mi sveglio”.
Il secondo sogno?
“Vado a trovare mio padre al Claridge’s di Londra. L’Hotel è vuoto. Lo cerco con una certa ansia. Ma non lo trovo. Alla fine scopro che è in un salone dove sta pranzando con dei reali. Distolgo lo sguardo, intimorito. Non so che fare. Mi avvicino a una finestra, mi affaccio e vedo fuori lo scavo di un teatro romano”.
Effettivamente in entrambi i sogni c’entra l’archeologia. Ma si presenta come un’esperienza bloccata.
“È vero. Per anni non ho pensato al valore simbolico e predittivo di quei sogni. Poi durante l’università tutto torna alla mente, si fa chiaro”.
Cosa era accaduto?
“Non lo so di preciso. So però che dovevo laurearmi in filologia classica con Ettore Paratore. Scopro invece la persona che mi seduce e mi cambia la vita: Ranuccio Bianchi Bandinelli”.
Il grande archeologo?
“Un uomo tormentato e affascinante. Decido di fare una tesi di laurea con lui, sui mosaici di Piazza Armerina. Non una vera tesi di archeologia, ma qualcosa comunque di affascinante che mi avvicinava a quel mondo”.
Che cosa ricorda di Bianchi Bandinelli, ribattezzato il “conte rosso”?
“Quel nomignolo glielo affibbiarono per le sue origini e per avere aderito a un certo punto al partito comunista”.
Fu lui a fare da cicerone a Hitler, durante una visita a Roma.
“È un episodio che non ha mai rimosso. Un errore. Conosceva perfettamente il tedesco. Gli fu imposto di fare da guida al Führer. Ne ha sofferto. Non se lo è mai perdonato. Alla fine si iscrisse al partito comunista. Secondo me lo fece per punirsi delle sue origini aristocratiche. È stato un uomo diviso. C’è una lettera di Thomas Mann che parla di lui, della sua anima lacerata: il comunista e il borghese”.
Anche lei è stato iscritto al Pci.
“Con meno martirio. Non ho mai pensato, diversamente dal mio maestro, che il comunismo fosse un nuovo cristianesimo”.
E che cosa era?
“Un modo più giusto di agire sulla società. Leggevo Marx, pur non essendo marxista, trovando le sue analisi straordinarie. Ho perfino scritto un libro sui Grundrisse. Poi è venuta la delusione e la rinuncia a certe analisi. Invecchiando sono tornato liberale. Le ricordo che in questa stanza si riunivano spesso gli amici del Mondo. E qui, su questo tavolo, è stata fondata l’Accademia dei Lincei“.
Si sente ancora parte di quel mondo?
“Intellettualmente sì. Un po’ Croce e un po’ Isaiah Berlin, sul quale ho appena finito di scrivere un libro”.
Una sfida ai filosofi della politica?
“Mi riconosco nel lavoro di un dilettante. Ho sempre più orrore dello specialismo. Di queste discipline sempre più simili a dei cenotafi, a delle tombe. Basta con la prigionia dei generi”.
Il genere antico le va a pennello.
“Dice?”.
Chi meglio di lei sulla Roma antica.
“Sono più di trent’anni che scavo. Sempre più giù”.
C’è qualcosa di vertiginoso in questa discesa?
“Come nel famoso sogno della metropolitana londinese. È l’istinto e insieme la curiosità. Senza queste caratteristiche uno studioso non va da nessuna parte”.
Scende e cosa scopre?
“Lo sa cosa si diceva di Roma? Che era stata fondata tra il sesto e il settimo secolo avanti Cristo. Scavo – tra le case dei consoli, sotto i magazzini della sacra via – e scopro degli edifici che non sono dei templi ma delle case dell’aristocrazia. Che faccio mi fermo? No, proseguo. Mi accorgo che sotto c’è un mondo diverso. Affino le mie tecniche stratigrafiche e scopro di essere entrato nel regno delle costruzioni effimere, fatte di legno e argilla. È una Roma che non ci si aspetta, databile intorno alla metà dell’ottavo secolo”.
In cosa consiste il fascino della fondazione?
“Si cerca il limite oltre il quale non c’è più nulla. Si va indietro, indietro, indietro. Perché? Chi ce lo fa fare? Semplice: ogni uomo non può fare a meno della sua origine. E lo stesso dicasi per la città. E perfino per i viaggi”.
L’origine sovente è avvolta in una leggenda.
“La leggenda è il rumore che sta sotto alla storia. A volte è un canto. A volte un grido. A volte un suono stridente”.
E la leggenda di Roma?
“Si dice che Romolo fondò Roma dal nulla. Possibile? No. I primi elementi – diciamo preromulei, risalgono oltre l’ottavo secolo”.
Ma la città, intendo Roma, non esiste ancora.
“Non c’è un Foro, non c’è un re che sovrasta e subordina gli altri capi. Ma l’origine di Roma, come molte nascite, si avvolge nella violenza e nel sangue”.
Romolo uccide Remo.
“È la versione leggendaria. In realtà Romolo uccide i suoi rivali: oltre Remo, Acrone e altri capi dei clan gentilizi che resistono all’unificazione del potere, alle gerarchie necessarie affinché una città, uno Stato, nasca e si espanda”.
I critici sostengono che la sua archeologia sia un po’ fantasiosa.
“La fantasia è una componente del mistero. Occorre una narrazione. Chi va alla ricerca delle origini deve sapere che il mistero è un soffio d’aria che ti investe, ti accarezza, ma ti può anche far male”.
Il mistero è l’irrazionale?
“Non bastano gli strumenti della ragione per indagarlo. Uno dei libri più belli che ho letto è Il cammino dell’umanità, di Angelo Brelich, un grande studioso di storia delle religioni. Ebbene, quel libro gli fu chiesto da Cesare Pavese che lo voleva per la sua collana “viola” dell’Einaudi. Poi Pavese si uccise e il libro fu rifiutato. Furono Bobbio e Giolitti a opporsi e sa con quale motivazione? Il testo di Brelich era irrazionale!”.
A proposito di irrazionalità, le piace Jung?
“Come studioso di miti, visto che me ne occupo, lo trovo interessante. Molto meno nell’analisi, dove mi pare inefficace”.
Lei è stato in analisi?
“Sì, per dieci anni. Il mio analista fu Ignacio Matte Blanco. Al quale dedicai il primo manuale di scavo che scrissi”.
Era un personaggio piuttosto singolare.
“Un cileno testardo. Capace di spaccare il capello non in quattro, ma in quattromila. Da giovane aveva corrisposto con Freud e questo lo spinse a sviluppare una sua idea di inconscio. Teorizzò insomma l’esistenza di un inconscio strutturale, che non si può rimuovere perché è una funzione dell’essere”.
Cosa vuol dire?
“Che l’essere non è solo ragione ma anche emozione. E l’inconscio detta questa doppia grammatica. Esprime una logica duplice. Non a caso Matte Blanco era un matematico che amava la poesia”.
Perché entrò in analisi?
“Ero fondamentalmente insoddisfatto di me. In crisi profonda. Mi ero lasciato con la prima moglie. Mio padre era morto da alcuni anni. E sebbene il nostro rapporto fu recuperato, per lungo tempo avvertii come un senso di abbandono e di tristezza”.
Dieci anni sono lunghi.
“Non c’è una data di scadenza come per lo yogurt. Mi affascinava, Matte Blanco. Avevo la sensazione che non fosse un vero analista. Non mi sentivo un paziente. Era un uomo senza regole. A volte capitava che si presentasse a casa, così senza un apparente motivo. È stata una incredibile avventura intellettuale. Poi, un bel giorno, la cosa è finita. Coincise con la nascita di mia figlia Greta nel 1989 e con l’improvvisa malattia di Matte Blanco”.
Due eventi opposti.
“È vero, la forza di una nascita e l’imminenza di una morte. Gli scrissi una letterina dove spiegavo le ragioni di questa mia decisione. Non mi rispose. Forse non l’ha neppure letta. La sua mente si era come spenta. E per me – che era diventato una specie di padre simbolico – fu un dolore enorme”.
Cos’è la vecchiaia?
“Non è solo il tempo che passa. È un senso di cambiamento, a volte di rottura, scendere i gradini di una prigione dove nessuno ti spinge, ma nella quale inesorabilmente finisci. Ricordo certe serate mondane, popolate di stupidaggini, di frasi inutili. Era lo sfogo che davo alle mie giornate di studio. Una gaiezza un po’ forzata che credo di aver perso”.
Crede?
“Ne sono certo. Sento incombere una certa malinconia. Ma non mi piace vivere la vecchiaia come una diminuzione. Non ho mai desiderato tornare indietro. Forse è una reazione inconscia all’archeologia che è tutto un tornare indietro. Vivo per quello che faccio. Se posso scrivere, studiare, pensare, mi basta. È sempre stato così. In fondo fin da bambino sono stato vecchio. Oggi si è aggiunta una certa solitudine, in questa grande casa”.
Cosa prova?
“Mi pare di essere nella quinta di un teatro abbandonato dove non si può più recitare. Perché quello che c’è stato non c’è più. Perché la mia classe è morta. Mi sento un sopravvissuto, un reperto archeologico. Sono stato creato per un mondo che non c’è più. Ma non ne ho nostalgia. Potrei disfarmi di ciò in cui vivo perché sento che è un guscio vuoto. Ci sto dentro per inerzia. Non per vocazione”.
È buffa questa sterzata che ha dato alla nostra conversazione.
“Perché? Non ho il senso del tragico. Ma le nostre sono davvero delle piccole vite. Basta non personificarsi nei miti familiari. Non sono l’erede di nulla. Ho avuto nella vita due modelli. Antonio Cederna e Urbani. Uno la protesta come difesa del paesaggio, l’altro il senso concreto del fare. Vorrei conservare qualcosa di loro, della loro bravura e moralità, nel mio impegno con il Fai, nel mio lavoro di ricerca. Penso che nella vita ci sia un quaranta per cento di fregature e un sessanta di cose che vanno a buon fine. Nonostante tutto resto un moderato ottimista”.
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Grazie per avermi dato occasione di leggere di nuovo questa conversazione. Antonio