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Voi mi dovete scusare se rischio di andare fuori tema ma quando Flavio Soriga mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul cibo mi è subito venuto in mente il carrello delle hostess. Sì, quello con le bottiglie di acqua, pepsi e succo d’arancia rossa e una bevanda che dicono essere caffè che mi guardo bene dal bere anche se vedo tanti che la ordinano, la mandano giù e, dopo, sono pure soddisfatti. Più i pacchetti: <biscotti o salatini>?
<Niente ,grazie>.
Eh, sì, perché io ho da fare, mica posso pensare a mangiare. Io devo controllare, devo stare attenta che tutto sia a posto.
Come, dove?
A bordo, no? Il volo, la rotta, il motore, il vento, le nuvole. Conosco ogni rumore, almeno penso, e quando ne sento qualcuno che non mi torna vado letteralmente nel panico.
E quelle, che fanno? Passano col carrello.
< Biscotti o salatini>?
Ma ti sembra il momento?
Se mangio sento lo scrocchiare dei biscotti sotto i miei denti: come faccio a capire se i motori stanno funzionando? E se quelle hostess stanno lì a sorridere, chiacchierare, gentili che nessuno ci crede, non io almeno, come faccio a concentrarmi?
Allora li prendo – <Biscotti> – solo per evitare discussioni. Perché se dico <no< ai biscotti allora mi offrono l’acqua e poi le salviette, <altrimenti chieda pure che noi siamo qui a disposizione>.
Se, invece, le vedo arrivare col carrello e per caso sento da lontano il rumore della plastica o delle lattine che sbattono l’una contro l’altra – <Aiuto, sta succedendo qualcosa: vento, vuoti d’aria, perdita di quota>? – subito lo sguardo, il mio, si fionda sulla hostess che quasi mai raccoglie il mio may day. E se quella batte in ritirata con le bottiglie, i salatini e l‘afrore di caffè, ecco, in quel momento io mi attrezzo per la catastrofe imminente. Non prego, no: il segno della croce, almeno venti, l’ho già fatto prima del decollo e dovrebbe bastare.
No, mi guardo a fianco, e…. chi c’è c’è: peggio per lui. Lo acchiappo. Gli afferro il braccio e la mano, e stringo e poi, ma solo poi dico, “scusi, ho paura, mi tenga la mano”. E quello, uomo o donna, giovane o anziano, mai che fosse un bono tipo, non so, Alessandro Gassmann, ha sempre la stessa reazione: prima sorride poi, mosso a compassione, comincia a parlare, vuole spiegarmi che non c’è da avere paura.
Stesse zitto almeno, perchè io, anche nel panico, devo ascoltare i rumori e guardare le hostess.
Accidenti! Com’è che non passano più?
Quanto vorrei quel carrello coi salatini, pure il caffè.
Niente. Sparite.
E non posso neanche guardar fuori perché sono seduta al corridoio e quelli a fianco a me, uffa, mi impediscono la visuale. Perché non sto al finestrino? Perché qui la via di fuga è più facile, che domande! E posso pure dare una mano in caso ci sia, che so?, da sventare un attentato, fermare un terrorista.
Non ci credete?
L’ho fatto.
Tornavo da Parigi dopo l’11 settembre…
A parte il fatto che c’era un vento pazzesco e, secondo me (e io me ne intendo) l’aereo pendeva verso destra e io, uffa, ho dovuto lavorare per tutto il viaggio: inclinata a sinistra, così, per raddrizzare l’aereo. Tutto il volo, due ore mi sembra, una fatica, però ce l’ho fatta, quando mi ci metto raggiungo sempre l’obbiettivo.
Ma poi, arrivata a Roma, c’era ancora l’ultima tratta, per Cagliari. E lì c’era. Come, chi?
Il terrorista.
Era un tipo strano, giovane, abbigliamento casual, barba incolta, capelli lunghetti, seduto qualche fila dietro la mia che ero abbastanza avanti, forse nella quinta. Sicuro che si preparava all’irruzione nella cabina di pilotaggio con una forchetta (quei controlli del cavolo in aeroporto… ci devono tenere ore e ore e guardare bene, invece passano tutti, specie i terroristi con le forchette mentre a me sequestrano le creme).
Quel tipo aspettava il momento buono per ammazzare i piloti, dirottare l’aereo e ucciderci tutti.
L’ho capito appena l’ho visto.
Ma io mica sto attenta solo ai rumori e all’inclinazione, io penso anche alla sicurezza a bordo, di tutti, certo, ma soprattutto la mia.
Allora: quanto dura il volo Roma-Cagliari? Un’ora. Ecco, per un’ora ho studiato un piano nel dettaglio. Ho tenuto la gamba sinistra un po’ fuori rispetto alla poltrona della fila destra, quindi sul corridoio, e pazienza se ogni tanto il polpaccio si addormentava. Sono rimasta allerta, la schiena dritta, il braccio destro sul sedile davanti, i muscoli in tensione.
Pronta.
Se quello si fosse alzato io gli avrei fatto lo sgambetto e poi, era tutto calcolato, gli altri passeggeri mi avrebbero aiutato a immobilizzarlo mentre lo placcavo a terra. Non era difficile: il problema era solo quello di non farmi sorprendere, non potevo concedermi neanche una minima distrazione anche se difficilmente quello sarebbe andato di corsa verso la cabina. Tutt’altro: avrebbe ostentato nonchalance e indifferenza, avrebbe camminato lentamente.
Poverino. Non sapeva che la sua missione terrorista si sarebbe frantumata davanti al mio piano di difesa perfetto.
Ho trascorso un’ora così, e quando è passata la hostess coi salatini li ho presi al volo solo per farla andare via e continuare a controllare il terrorista. Ma non li ho mangiati, e non solo perchè erano freddi (come sempre: ma dove li tengono? Fuori dal finestrino in alta quota?). Quando si vive la tensione di un momento importante – che dico “importante”?, DECISIVO – lo stomaco si chiude.
Li ho messi in borsa: sia mai che una volta a terra, tra interrogatori in questura e cose varie, si faccia l’alba e io sono ore che non mangio.
Poi siamo atterrati e l’ho guardato bene: mi ero sbagliata, non era un terrorista. E meno male che non si è alzato per andare in bagno sennò sarebbe scoppiata come minimo una rissa. O forse mi sarei spiegata e mi avrebbero capita o avrei sorriso con tutto il sex appeal di cui sono capace e si sarebbero innamorati oppure mi avrebbero portata dritta in psichiatria. Non lo so, non lo voglio sapere.
Eh sì che con quello che è successo ora a Dusseldorf ho un problema in più: il pilota. D’ora in avanti dovrò controllare anche lui. Prima della partenza, è ovvio.
Io, in verità, li guardo sempre in aeroporto quando arrivano tutti insieme, quelli dell’equipaggio, con i cappotti e le calze e i maglioni, estate e inverno, e quei trolley così piccoli che dentro non ci sta nulla, a me non basterebbero neanche per 12 ore, infatti mi sposto sempre coi bauli e tutti mi guardano con invidia come se dovessi partire un mese per l’Australia invece è un Cagliari-Milano e ritorno in giornata.
Li guardo e penso: è il loro lavoro. Faccio un calcolo delle probabilità, ricordo in fretta le statistiche degli infortuni sul lavoro e mi rassicuro: se non succede niente a loro non succede niente a me.
Ma d’ora in avanti non potrò cavarmela così. No. Dovrò avvicinarmi: “buongiorno comandante, come sta?, tutto bene? In famiglia, con sua moglie?, corna? vi siete lasciati?, ma allora è meglio che stia a casa oggi. No, davvero, glielo garantisco, non è assenteismo, il mal d’amore è una malattia, il medico fiscale gliela certifica. E’ bella la vita, vero che è bella? Come si fa a rinunciarci di proposito? E’ d’accordo con me? Meglio viverla tutta. E poi, scusi, se sua moglie l’ha lasciata non si preoccupi: è pieno di donne tra i quaranta e i cinquanta, io ne conosco decine, me inclusa, che non vedono l’ora di trovare un pilota che le sposi, o che si fidanzi o che voglia passare una sera o cinque minuti, o che le guardi e basta e subito si innamorano. Mi raccomando. Però, se vuol darmi la combinazione della cabina così, non si sa mai, se si dovesse sentir male, apro io. Non beva il caffè a bordo sennò davvero le vengono propositi suicidi, e se proprio ne ha desiderio glielo offro io quando atterriamo, ok? A dopo allora”.
E poi mi accomodo e faccio finta di nulla e se lo reincontro fingo di non averlo mai visto. Come faccio sempre.
Anche quella volta che l’aereo era mezzo vuoto, anzi proprio quasi vuoto, e vicino a me, davanti a me, dietro di me non c’era nessuno. E forse proprio perchè eravamo pochi non si vedeva neanche una hostess. Sì, i salatini e i biscotti li hanno passati e anche il simil caffè, sia mai che mi decida a berlo, ma poi si sono rifugiate nelle loro stanze, e bon.
Ma c’era vento, mamma mia che vento, e si ballava, mamma mia se si ballava. E mica posso andare in giro per tutto l’aereo a cercare qualcuno che mi tenga la mano. No che non posso, anche perchè io devo stare seduta dritta, senza voltarmi né a destra né a sinistra, il mento alto: è il solo modo per tenere su il velivolo e conservare la rotta.
Allora il cuore ha cominciato a battere all’impazzata, è arrivato in gola e rischiava di uscire. Attorno a me solo silenzio: <Questa volta sono impotente, non posso più far nulla, vado dritta verso il mio destino>. Ma, all’improvviso ho un pensiero nuovo: qui non si vede una hostess, e non c’è neanche un annuncio non dico del comandante ma della responsabile di cabina che informa del disastro imminente. Se stessimo precipitando forse qualcosa la direbbero. No?
Allora: forse non stiamo precipitando. E te l’immagini se tra qualche minuto l’aereo atterra e mi trovano qui, sul sedile, morta d’infarto? Che figura ci faccio? Aspetta che mi organizzo un training autogeno: un respiro profondo, due, tre, coraggio, calma, dai che ce la fai.
Ecco, ha toccato terra, ha frenato, si è fermato.
Dove sono i biscotti? Buoni, peccato non aver preso il caffè.
* Il racconto è stato letto dall’autrice in un Reading organizzato da Flavio Soriga
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Grandissima Francesca! E che bella scoperta…una vis comica inaspettata.
Voglio leggere altre cose così di te. E dove?
Un abbraccio, Franca
sa prossima ota lassa stai s’ aeriu e pigadì su battellu
fantastica, la prossima volta che salirò in aereo dovrò trattenermi