Considerazioni a margine del Convegno su ambiente e sviluppo sostenibile dell’Associazione degli ex parlamentari [di Sergio Vacca]

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Martedì 7 aprile a Cagliari presso la Fondazione del Banco di Sardegna, organizzato dall’Associazione degli ex Parlamentari, si è tenuto un convegno sullo sviluppo sostenibile, tema sempre più attuale e sempre più problematico. Ad essere maliziosi, ci domandiamo se abbia voluto essere una sorta di autodafé dei propri trascorsi politici. Una pubblica confessione, ex post, di impotenza rispetto a ipotesi di programmi di sostenibilità dello sviluppo “che rispondano alle esigenze del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie“. Oppure la presentazione di nuove “Strategie per lo sviluppo sostenibile”? Aspetto che è emerso negli interventi ma in assenza dei decisori regionali che hanno disertato l’iniziativa.

A rappresentare l’interesse crescente della pubblica opinione verso la tutela del paesaggio, del suolo, dei beni culturali, Maria Antonietta Mongiu, Presidente regionale del FAI; Tonino Piludu, dirigente CGIL; Maurizio De Pascale della Confindustria; Valentina Meloni del l’Aniem; Vincenzo Tiana di Legambiente; Giorgio Carta e Pietrino Soddu dell’Associazione organizzatrice. A concludere il ministro dell’Ambiente Galletti. Ha coordinato  Maria Francesca Chiappe, capocronista de L’Unione Sarda. Numerose le domande che avremo voluto rivolgere o le considerazioni a seguito dei diversi interventi. I tempi erano stretti ed il convegno, particolarmente affollato, avrebbe meritato una ripresa pomeridiana.

Pietrino Soddu, sempre più nella veste di intellettuale, ha contestualizzato gli interventi industriali degli anni Sessanta in una temperie di “arretratezza” e di disagio. Auspica per oggi quello che non si fece allora: sottoporre alla pubblica opinione piani e programmi di sviluppo economico e infrastrutturale; procedere ad una valutazione strategica, ambientale, economica con le relative procedure di partecipazione delle politiche che, nonostante la programmazione sia stata indicata dall’attuale amministrazione regionale come la linea guida di ogni atto di governo, si stenta a riconoscere nella prassi gestionale corrente.

Nel merito alcune considerazioni su specifichi temi del Convegno. Il rappresentante dei sindacati ha mostrato l’interesse verso uno sviluppo che vede le terre “marginali” ma anche le irrigue, potenzialmente interessate ad uno sviluppo delle diverse essenze vegetali, proposte come base per la “chimica verde”, per il “biofuel” e come biomassa per la produzione energetica. Avanza la possibilità di un utilizzo sistematico dei reflui trattati, ad integrazione dell’irrigazione in ragione delle esigenze colturali delle specie indicate, quali il cardo e la canna. Argomento marginalmente ripreso dal rappresentante di Legambiente.

Va osservato che l’acqua irrigua da impianti pubblici, annualmente destinata all’irrigazione dalla Programmazione regionale (dati ADIS/RAS 2014), ammonta a 383 milioni di mc e la superficie irrigata a 49 mila ettari (campagna irrigua 2013). La tipologia colturale che incide maggiormente è “erba medica, prato, pascolo, erbaio”, per il 25% del totale, seguita da ortive (carciofi, pomodori e altre) che incidono per il 23%, le colture arboree e fruttiferi per il 20%, e l’insieme “frumento, cerealicole, leguminose” si attesta sul 18% del totale. A causa del clima, dall’alta variabilità degli apporti meteorici, si risente nell’isola di una forte discrasia tra domanda e offerta, che determina una forte competizione tra i diversi settori d’utenza (potabile, irriguo, industriale), con forti penalizzazioni al settore agricolo.

L’approvvigionamento da acque sotterranee permette di contenere il deficit, seppur  spesso l’acqua attinta da pozzi ed altre fonti non in dotazione del servizio pubblico è gestita in modo poco razionale. Complessivamente si tratta di circa 56 milioni di mc di acque dolci e di 21 milioni di mc di acque salmastre e di reflui, non sempre convenientemente depurati, per una superficie irrigata di circa 13 mila ettari (INEA, 2009). Di fatto non vi sono risorse idriche da destinare all’incremento del settore irriguo. Meno ancora da mettere nella disponibilità della ipotetica produzione di essenze vegetali idroesigenti a base della cosiddetta “chimica verde”, per il “biofuel” e come biomassa per la produzione energetica.

Teoricamente qualche prospettiva potrebbe sussistere per un utilizzo maggiore dei reflui, ad integrazione delle risorse da destinare all’agricoltura irrigua. Ma qui si pone una serie di problemi di grandissima rilevanza per gli effetti negativi, in termini di forte degrado dei suoli, che potrebbero aversi se non venisse determinata ex ante, per via sperimentale con adeguate metodologie scientifiche, la compatibilità tra i reflui, obbligatoriamente trattati almeno al terzo stadio, e le diverse tipologie di suoli.

L’unico sistema pronto a produrre acqua irrigua da depuratore fognario, attraverso un trattamento di terzo stadio, le cui performance sono state verificate sperimentalmente, in lunghe ed esaustive ricerche applicate, e a livello industriale nella campagna irrigua del 2002, è il depuratore di Cagliari. Tuttavia, di questo va tenuta sotto stretto controllo la salinità e in particolare l’alcalinità, legate alle ingressioni di acqua di mare nel sistema fognario cittadino. Di altre iniziative di riuso, solo quella di Villasimius può considerarsi valida: da anni le acque depurate al terzo stadio vengono avviate all’utilizzo attraverso linee di trasporto dedicate per l’irrigazione del verde pubblico.

Quella proposta dal Consorzio della Nurra, avviata sperimentalmente tre anni fa, è da considerarsi fallimentare. Le acque del depuratore fognario di S. Marco sono state immesse nella rete irrigua consortile, per essere, come da disposizione degli organi regionali e provinciali competenti, miscelate al 50% con le acque provenienti dall’invaso del Cuga. Questa prescrizione è stata curiosamente intesa come possibilità di inviare ad ore diverse sia il refluo tal quale, sia l’ acqua dell’invaso del Cuga. Risultato disastroso, con proteste degli agricoltori.

L’uso dei reflui del depuratore di S. Marco, che dovrebbero essere trattati almeno al terzo stadio e, in prospettiva di quelli del depuratore fognario di Sassari, andrebbe preceduto da una credibile sperimentazione sulla compatibilità tra reflui ed i suoli dei distretti dominati. Ma andrebbe realizzata anche una rete duale di distribuzione, in modo da consentire agli utenti di poter utilizzare acqua fresca o reflui depurati in relazione alle proprie esigenze colturali. Come è noto, alle colture biologiche è inibito l’uso di acque reflue.

Un aspetto evidenziato nel convegno è stato il consumo del suolo, in particolare dalla prima dei relatori, Maria Antonietta Mongiu. La rappresentante del Fondo Ambiente Italiano ha prospettato i suggerimenti migliorativi che il sodalizio ha proposto al Decreto legge sul consumo del suolo che a giorni inizierà il suo iter alla Camera. Netti i giudizi sull’assenza in Sardegna del PPR che riguardi tutta l’isola e non solo le coste. Nel 2006 la RAS fu la prima a partire con un iter virtuoso. Mentre oggi Toscana e Puglia hanno uno strumento coerente con l’art. 9 della Costituzione e con il Codice Urbani, la Sardegna rischia una nuova stagione di cementificazione con il progressivo impoverimento di quello strumento eroso negli anni dalle diverse generazioni della legge casa,  peggiorata dagli emendamenti bipartisan approvati in questi giorni, in Consiglio regionale, nella discussione della legge sull’edilizia.

La RAS è priva inoltre di un Piano Regionale Industriale, di un Piano Energetico Regionale, di una legge che contenga il consumo del suolo, di un Progetto di Sviluppo Rurale. Non si registra una chiara idea di sviluppo ed una visione che invece furono delineate nel PPR del 2006 che pose il paesaggio a fondamento dell’identità della Sardegna. Denuncia il fenomeno, le cui proporzioni sono preoccupanti, della sottrazione della terra all’agricoltura per l’invasività delle rinnovabili in cui si registra la presenza della malavita organizzata.

Il fotovoltaico a terra, il solare termodinamico, le serre fotovolatiche, il mini eolico, prospettano una traiettoria inquietante. La politica appare distratta a quanto accade nei territori dove le comunità si organizzano attraverso comitati che cercano di contenere una vera e propria deriva e persino la sottrazione forzosa delle aziende per “ragioni di pubblica utilità” che in realtà sono progetti di rinnovabili proposti da società il cui interesse è legato ai contributi pubblici. Non diversamente dalla stagione delle “cattedrali nel deserto” della petrolchimica che ha lasciato un irrisolto: tassi insopportabili di inquinamento mentre le bonifiche auspicate non decollano.

Il costituzionalista Pietro Ciarlo riprende le ragioni che sono a fondamento della visione del FAI di cui lui stesso è autorevole esponente. Insiste sul fenomeno causato anche dall’urbanizzazione, particolarmente quella costiera, che riguarda peraltro i suoli migliori in Sardegna e che prelude ad un aspetto studiato da decenni che è la desertificazione.

Relativamente agli impianti di energie rinnovabili non occorre spendere molte parole per evidenziare l’impatto negativo di tali realizzazioni e programmi. Terre di alta capacità d’uso, che supportano attività agricole e pastorali, economicamente ed ambientalmente sostenibili – è appena il caso di ricordare che la nostra isola sopporta un deficit agro-alimentare di circa il 70% rispetto ai propri fabbisogni – che sono già interessati o corrono il rischio di essere adibiti a mero sedime degli impianti. Questi necessitano di ancoraggi delle “stringhe”, vere e proprie vele, con plinti in cemento armato, profondi non meno di 5-6 metri e adeguatamente dimensionati ed in numero non inferiore a molte migliaia, posto che gli ancoraggi elicoidali previsti dai progetti non sarebbero in grado di contrastare la spinta dei venti che soffiano in tutti i territori della Sardegna.

Nelle diverse proposte viene negato il cambiamento d’uso delle aree agricole. Viceversa è tutta da dimostrare la compatibilità della compresenza tra impianto e attività agricola nelle diverse forme “suggerite” dalle relazioni agronomiche di supporto ai progetti. Al di là della quasi materiale impossibilità di operare con mezzi meccanici negli spazi fra le “stringhe” degli impianti, le Società proponenti dovrebbero indicare, con ragionevole precisione, anche le variazioni di temperatura dell’ambiente che si determineranno nei diversi punti dell’impianto. Variazioni che certamente saranno molto significative in aumento. Rispetto a questo aspetto andrebbe verificata la compatibilità di questa modificata condizione microclimatica con la fisiologia delle specie che si intenderebbe introdurre nelle strisce ovvero con la presenza umana e animale.

E come potrebbe essere definita questa se non una radicale modifica della destinazione d’uso delle Terre! E – domandiamo – se possa considerarsi azzardato prevedere che a fine vita degli impianti saranno lasciate sul posto soltanto le macerie di una attività industriale. Non abbiamo alcuna preoccupazione rispetto alle tecnologie proposte o utilizzate, così come viceversa evidenziato dal rappresentante degli ambientalisti, la nostra grande preoccupazione, come studiosi e professionisti che hanno speso gran parte della loro vita nello studio dell’ambiente e delle sue componenti essenziali come il suolo, è legata all’impatto che tali iniziative hanno avuto e avranno sulle Terre. Quello che ci preoccupa fortemente è il “dove”: la localizzazione di tali impianti.

E le nostre preoccupazioni, per confutare l’affermazione del rappresentante confindustriale, sono assolutamente serie; non sono sorrette da alcuna ideologia politica o ambientalista, bensì da decenni di studi e analisi sperimentali sul territorio e da una profonda e convinta adesione all’etica professionale.

In conclusione, ciò che emerge molto chiaramente è l’assenza di credibili piani regionali concernenti l’ambiente e l’ agricoltura, l’energia, le infrastrutture. In attesa, perciò, di chiari indirizzi che riguardino il possibile “uso sostenibile” delle risorse dell’ambiente, in particolare dei suoli, auspichiamo, in primo luogo, una moratoria nelle concessioni dei permessi di realizzazione di impianti del cosiddetto fotovoltaico a terra, di solare termodinamico e serre fotovoltaiche.

Ma auspichiamo anche che piani di sviluppo che riguardino l’ambiente e l’ agricoltura, l’energia, le infrastrutture, se vorranno essere definiti “sostenibili”, dovranno – come auspicato da diversi relatori – passare al vaglio della pubblica opinione, che deve esprimersi sul futuro della nostra isola. Come peraltro avviene in numerose nazioni del pianeta.

Una chiosa, rispetto all’intervento del ministro Galletti. Sollecitato sul tema del possibile stoccaggio in Sardegna delle scorie radioattive, ha fatto unicamente cenno al risultato del referendum consultivo della popolazione sarda del 2011, dicendo che il governo terrà sicuramente conto del risultato, che – è appena il caso di ricordarlo – ha raggiunto il valore del 97% di voti contrari. Oltre a questo importante risultato dell’espressione popolare, va segnalato che nell’isola non vi sono le condizioni geologiche per la creazione di un deposito di scorie radioattive, in quanto tutte le formazioni sono caratterizzare da circolazione idrica. Ossia, in nessun punto dell’isola sono presenti litologie anidre, come invece previsto nelle relative norme tecniche internazionali e nazionali.
*Università di Sassari

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