Beni pubblici, gestioni private [di Andrea Carandini]

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Il Sole 24ORE 12 aprile 2015. Una politica “più umana” implica l’attenzione, fin qui inadeguata, alla promozione e alla gestione del patrimonio culturale, in un confronto fra istituzioni ed enti privati simili al FAI che mira a condividere le diverse esperienze. La Costituzione, all’art.9, affida la promozione della cultura alla Repubblica, per cui lo Stato, che deve conservare il monopolio del controllo e dell’indirizzo della tutela è autorizzato a coinvolgere i privati capaci nella progettualità, promozione e fruizione dell’immane patrimonio, assai mal mantenuto.

Già oggi i privati svolgono i servizi e le opere necessarie al funzionamento dell’amministrazione, i lavori per la manutenzione, il restauro e lo scavo, le mostre e la manutenzione dei sistemi impiantistici e di quelli informatici. Eppure questi ampi spazi concessi, sono caratterizzati da frammentarietà estrema dovuta in parte a incapacità di regia e in parte alla volontà di tenere il rapporto con il privato in un limbo nebuloso, senza chiarezza, che deprime progettualità e imprenditorialità.

L’Amministrazione non ha mai fatto della gestione un progetto proprio, l’ha sempre trattata come un’attività di risulta, mentre essa è componente essenziale della conservazione, della promozione e dello sviluppo dei territori, né è stata mai organizzata per una simile valorizzazione; ma senza di essa non si ha neppure la tutela, oltre che viceversa. C’è pertanto da domandarsi se la parte gestionale non debba avere in futuro un carattere almeno in parte privatistico: l’esempio del risorto Museo Egizio di Torino è d’insegnamento (ringrazio per queste idee Roberto Cecchi, già Segretario generale del Ministero, di cui ho potuto leggere Cultura competitiva. Conoscenza, regole e professionalità per una politica pubblica di sviluppo, Skira, in corso di stampa).

All’origine del pensiero liberal-democratico sono due tradizioni culturali, una evoluzionistica, fatta di rivoluzioni limitate e di riformismo, e una razionalistica e costruttivistica, che ha inteso riedificare l’intera società a partire da una rivoluzione illimitata. Secondo la prima tradizione lo Stato è polo centrale ma non esclusivo della vita sociale, per cui a esso è congeniale favorire una società civile attiva, di cui apprezza le conoscenze disperse e imprevedibili, utilissime alla collettività. Ne risulta un concorso tra istituzioni e società nel cooperare al bene comune. In questa prospettiva, la centralizzazione amministrativa statale, apportatrice di uniformità, presuppone un bilanciamento da parte degli autogoverni locali e delle libere associazioni, capaci di offrire variegati esperimenti di vita.

Tocqueville ha dato un’importanza straordinaria ai ‘corpi secondari’, volti a connettere gli individui allo Stato facendoli partecipare alla vita civica. Per Mill “(I cittadini), individualmente piccoli, sembrano capaci di grandi cose solo in virtù della nostra abitudine ad associarci“. Per lui bisognava ottenere i vantaggi della centralizzazione senza inglobare in essa una parte troppo grande delle attività. Infine per Dahl, morto di recente, le “organizzazioni intermedie” concorrono a un bene comune.

Le libere associazioni evitano gli opposti estremi di uno statalismo totalizzante e di un individualismo atomizzante. Le società aperte e plurali non possono prescindere dall’azione dei “corpi sociali intermedi”, che grazie alla loro autonomia interconnettono cittadini e Stato nella vita civica, come ha visto Bobbio. La Costituzione italiana, all’articolo 2, tutela l’individuo anche nelle formazioni sociali di cui fa parte e all’articolo 118 vuole che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”(agli articoli 111-112 del Codice dei Beni Culturali è tutto un concorrere, cooperare, partecipare, concertare e integrare tra pubblico e privato).

Conta, non più soltanto la proprietà pubblica, ma la funzione pubblica, che può essere pienamente esercitata anche da privati. Il vecchio paradigma bipolare dello Stato si è basato su sfere rette da principi diversi e irriducibili, nelle quali la contrapposizione tra pubblico e privato ha prevalso. Al contrario, il paradigma dell’arena pubblica che va prospettandosi in Europa presuppone uno spazio in cui si attua lo scambio tra Stato e società. In esso i ruoli sono interscambiabili, i rapporti sono modificabili e si prevedono accordi su regole e principi. Alla contrapposizione si sostituisce la convergenza che si ottiene tramite accordi.

Al monismo statale si sostituisce un conglomerato di diritti e così l’interesse generale si ricava non più da una fissità imposta a priori dalla legge intesa come finalità superiore bensì dal risultato di un conflitto, tramite la capacità di armonizzare i diversi interessi. Così la libertà delle forme proprie del diritto privato finisce per permeare anche il diritto pubblico. I due mondi, già separati, gerarchicamente subordinati e a priori in opposizione si presentano finalmente come entità capaci di interpenetrarsi, con mutuo vantaggio.

Così il risultato ottimo procede da un conflitto virtuoso composto tra parti che si ritengono incomplete e che mirano relazionandosi a integrarsi (Sabino Cassese, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per uno Stato, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 2001, p.602 ss). Sono queste idee che inducono a ripensare creativamente promozioni e gestioni del patrimonio, senza ripetere vecchie giaculatorie e manie fissate unicamente sullo Stato. Non è questione di diminuire o allargare la sfera pubblica o quella privata, ma di far fare a ciascuno il compito che più gli è congeniale, potenziando l’intero sistema della Repubblica in una cooperazione leale.

 

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