Il tarlo di Foucault [di Silvano Tagliagambe]
L’intervento è stato scritto per la Tavola Rotonda Il riscatto dei “guardati” senza sguardo nel Seminario Michel Foucault: Istituzioni totali e comunità ospitanti organizzato dal FAI Sardegna all’interno dell’iniziativa Il primo miglio per la riapertura dell’ex Carcere di Buoncammino il 2 e 3 maggio. Con la sua trilogia Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), La volontà di sapere (1976) e Microfisica del potere (1977), Foucault individua i germi che, con la nascita nell’età moderna del “panoptismo quotidiano”, incarnato da istituzioni totali come il carcere, il manicomio, la scuola, la fabbrica, erano destinati a creare un nuovo senso comune, il tarlo che, scavando per lo più inavvertito, stava e sta tuttora erodendo le fondamenta della concezione, fino a quel momento egemone, dell’uomo e della vita sociale. Il Panopticon di J. Bentham è una macchina infernale, un utopico luogo di reclusione a forma di anello che, in virtù di una torre eretta al centro, consente di sorvegliare i prigionieri delle celle circostanti, i quali finiscono per “interiorizzare” ed esercitare su di sé lo sguardo regolatore del potere. Costantemente guardati e sorvegliati senza avere la possibilità di ricambiare lo sguardo e di interagire e comunicare con gli osservatori, gli uomini sottoposti a questo trattamente cominciano a perdere la loro dignità di persona e a sentirsi equiparati a cose. Inizia così il processo di reificazione dell’individuo, l’asservimento non soltanto e non tanto del suo corpo, ma della sua stessa anima. Con la nascita di queste istituzioni il potere si diffonde, si miniaturizza, diventa il principio regolatore delle relazioni sociali a tutti i livelli: le reti di potere passano attraverso la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, sono capillarmente presenti ovunque, cosicché ogni individuo o gruppo risulta, simultaneamente, loro vittima e artefice: ad es. l’operaio subisce il potere in fabbrica e lo esercita a sua volta nella famiglia o nell’ambito del sindacato o del partito. Ne viene contaminato anche il sapere, al punto che a interessare non è più la verità, ma la volontà di verità, ossia un piano di potere che si esprime in forma di conoscenza. L’uomo non solo non è libero, ma vive sempre e soltanto in funzione della società in cui vive, comunque la si descriva. Le istituzioni totali assume come loro regola costitutiva interna la disciplina. Questo criterio deve rispondere all’incrocio di due esigenze: massima aderenza alla legge e massima capacità di rendimento. Essere disciplinati significa essere pienamente coerenti col sistema, con le sue finalità. Questa regola è l’anima stessa della disciplina, che diventa così metodo educativo e metodo produttivo insieme. Ciò che varia nelle tre istituzioni è solo la qualità degli individui inscritti in quel contesto, ma le qualifiche di coloro che ne escono devono essere le medesime: chi esce dalle scuole, chi esce dagli ospedali, chi esce dalle prigioni deve potersi reintrodurre nella società senza causare perturbazioni problematiche alla società stessa. Ed è per questo che scuole, ospedali, prigioni prevedono al loro interno specifiche forme di controllo e di disciplina: insegnanti, ordine dei medici, polizia, corti di giustizia, psicologi. La disciplina, prima di penetrare in modo massiccio all’interno della società moderna, era stata una caratteristica di un mondo periferico e marginale: solo alcuni eserciti e gli ordini monastici erano dotati di sistemi educativi rigorosi, caratterizzati da regole rigide. A seguito della sua espansione e della sua introiezione sociale si sviluppa una fede che ha come dio la normalità. L’ideale da perseguire non è più quello dell’individuo eccezionale, così efficacemente descritto da Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della pazzia, l’eroe eccezionale protagonista della cultura umanistica e rinascimentale in veste di mago, di artista, di filosofo, di inventore. Se per Erasmo la follia e la creatività insita in essa è all’origine di ogni bene per l’umanità ed è la guida indispensabile per l’accesso al sapere, nella società governata dalle istituzioni totali il punto non solo di partenza, ma anche e soprattutto d’arrivo, l’ideale da perseguire deve essere costituito dalla normalità, in virtù della quale le persone si devono comportare in modo chiaro e soprattutto omogeneo. Tutti coloro che fuoriescono da questo binario vengono considerati estranei, intrusi, deformi, anormali. Estranei perché strani, intrusi perché fuori dal loro posto, de-formi perché dotati di una forma deviante, anormali perché eccezioni rispetto alla norma. Nasce in questo modo il rigetto del diverso, condannato a un’ostilità silenziosa, nel migliore dei casi, e si afferma un nuovo metro di valutazione sociale, che si può esprimere e riassumere nella nascita di una nuova parola. La parola chiave “normale” è assai recente, nell’uso che ne facciamo oggi. Basti dire che in latino si usavano due parole diverse, iustus e consuetus rispettivamente per “aderente alla legge” e per “abitudinario”. Come si vede, si tratta di significati che, anche se uniti e integrati, non riescono a rendere l’idea della normalità come esaltazione dello status quo. Il carcere, anche se viene costruito nel centro delle città e ha una presenza imponente, come Buoncammino a Cagliari, è un luogo anch’esso sottratto allo sguardo della società. Marginale è la visibilità del problema, marginale è l’attenzione sul problema, marginale è la cura del problema. Della sorte dei detenuti, della loro vita, delle loro condizioni pochi sanno e ancor meno si interessano. Eppure con la nascita della prigione nella storia inizia un cambiamento destinato a incidere in profondità e ad avere riipercussioni impensabili che durano tuttora. Basta pensare al fatto, in sé davvero paradossale, che una condizione di punizione, alla quale vengono condannati coloro che più o meno gravemente hanno peccato contro l’imperativo della normalità, diventa la forma di spettacolo più riuscita e di maggior successo nella società contemporanea dei mezzi di comunicazione di massa, negli Stati Uniti come in Europa. Il Grande Fratello è infatti la traduzione in forma di show televisivo del Panopticon. In esso, i concorrenti sono posti in una casa nella quale devono vivere cento giorni circa e dove vi sono telecamere ovunque: ogni metro quadro della casa è sorvegliato. I partecipanti vengono messi alla prova con diversi esercizi, tutti da considerarsi umilianti per chi ne è fuori, con una evidente mortificazione non solo dei loro corpi, ma anche e soprattutto della loro psiche. il principio che ha reso celebre questo programma è esattamente lo stesso che caratterizza il funzionamento della prigione correttiva: quello di fare entrare i corpi in un ingranaggio che li controlla passo dopo passo in profondità e di sottoporre le anime a una forma di disciplina spinta all’estremo, senza scacchi né lacune, che si appropria della dimensione psichica e la ingabbia, la vincola ad accettare senza ribellioni e riserve tutte le regole del gioco, come dimostra il fatto che i vincitori sono sempre i più docili ed acquiescenti, i più “normali”. Ecco dunque il nuovo senso comune che avanza strisciante e non esente da un inquietante paradosso. Ciò che accade nelle prigioni, in luoghi dove non si può andare a guardare, e comunque non piace farlo, diventa, attraverso la simulazione televisiva, il prodotto di maggior successo di un voyerismo collettivo, lo sguardo compiaciuto sulla miseria dell’uomo reificato, ridotto a cosa, forse perché, inconsciamente, in quello spettacolo ci si riconosce, si ritrova una condizione umana nella quale la persona, soggetta com’è quotidianamente a meccanismi che l’opprimono, la schiacciano e la mortificano, o comunque non ne rispettano la dignità, si sente vittima di un potere coercitivo un po’ in tutti i luoghi, anche se in forme e modalità diverse, in quelli di studio e di lavoro, in quelli di cura, nelle istituzioni che dovrebbero essere al suo servizio. Da luogo marginale e sottratto allo sguardo la prigione diventa così la cifra di ciò che accade tutti i giorni. Certo l’analisi di Foucault, che teorizza l’avvento di una nuova società, la società del potere organizzato e onnipresente, di quel potere che sviluppa conoscenza al fine di appropriarsene e di utilizzarla non per liberare ed emancipare gli uomini, ma per ingabbiarli e renderli ossessivamente osservati, e che postula la nascita di un senso comune talmente refrattario alla diversità da tollerare poco e male anche le forme di creatività, viste comunque come eccezioni di cui diffidare, è tutt’altro che incoraggiante e ci offre un quadro forse un po’ troppo pessimistico della nostra situazione attuale. Denunciando con impietosa lucidità, anche se con indubbi eccessi, la nostra quotidianità, ha però il merito di indicare la strada da percorrere per evitare di cadere nelle trappole indicate. Questa possibile e auspicabile via d’uscita consiste nel trasformare il potere dell’uomo sull’uomo in potere dell’uomo per l’uomo e, soprattutto, nell’accesso a una nuova concezione del potere. Quella teorizzata e raccomandata da Sören Kierkegaard, non a caso il filosofo che lasciò scritto che se avesse dovuto indicare un’ iscrizione per la propria tomba, ne avrebbe chiesta una che recasse scritto “Quel singolo”, per sottolineare e rivendicare la sua unicità di persona. Ebbene, nella sua opera La dialettica della comunicazione etica ed etica religiosa, collocata dagli editori danesi nel 1847, questo grande filosofo ci lascia questa profonda osservazione: «Quando qualcuno tiene lezioni sull’atarassia dall’alto di una cattedra, allora ciò eticamente non è vero. No, la situazione dev’essere in modo che egli nello stesso tempo mostri atarassia; come per esempio se qualcuno, circondato da una schiera di uomini che l’insultano, insegni l’atarassia (all’insegnamento appartiene la situazione della realtà)». Intesa in questo senso l’etica è dunque strettamente connessa al termine danese können come infinito sostantivato, che ha il significato di “potere” non però nell’accezione usuale che diamo a questo termine, bensì nel senso di possibilità reale e, in particolare, di “possibilità e capacità di fare”, e dunque di competenza. Ecco, il potere, da coercizione dell’uomo sull’uomo si può trasformare in servizio dell’uomo per l’uomo solo se diventa, appunto, capacità di operare sorretta da competenza, nutrita da un complesso di abilità che vanno non raccontate e rivendicate, ma esibite concretamente facendo, impegnandosi ogni giorno e dimostrando di saper affrontare e risolvere i problemi della cui soluzione siamo stati incaricati. La speranza di queste giornate del FAI dedicate alla riapertura di Buoncammino e che hanno visto, complessivamente, la visita fino a ieri di 35.000 persone è che questo pellegrinaggio imponente quanto inatteso nelle sue proporzioni non sia manifestazione di quel voyerismo collettivo di cui abbiamo parlato, ma testimoni il bisogno profondo e diffuso di un potere che non sorvegli, come si faceva in questo luogo di pena, e non opprima, ma sia finalmente espressione di conoscenze, di competenze e di capacità di decidere e di ben operare, poste al servizio del cittadino e del benessere della Sardegna. |