La cultura delle regole e dei doveri [di Ferruccio de Bortoli]

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Corriere del Ticino 06/05/2015. Si è sempre pensato che il rimedio alla stanchezza della democrazia fosse una cura ricostituente di diritti, estesa non di rado alla discutibile categoria dei desideri (la pace, l’oblio). Dei doveri non si parla più. Eppure è dal loro tramonto che l’Occidente, stanco anche delle libertà individuali (di parola, di fede, di associazione) deve guardarsi, per non affievolirsi in una globalità indistinta. Una globalità fatta di scambi e dialogo ma anche di governi autoritari. E insanguinata dalla minaccia di chi addirittura sente il dovere della guerra agli infedeli.

La Rete è uno straordinario luogo della democrazia multimediale. Offre a tutti una finestra di dialogo. Peccato che non pochi la scambino per un balcone. Un teatro dei sogni, ma anche una sentina di umori neri, una selva di agguati anonimi. La partecipazione trionfa, ed è un bene. La regola non scritta è la condivisione. Perfetto. Ma per molti navigatori il dovere di rispettare gli altri è il trascurabile vaso di coccio della modernità. Quasi un intralcio al desiderio di affermarsi, alla spontaneità di dire la propria, impunemente. L’altro, il prossimo, specie se sconosciuto, non è più una persona ma semplicemente un oggetto, un bersaglio inanimato, facile da colpire sotto la maschera dell’anonimato.

Alcune tutele, nell’orgia della condivisione, sono considerate ferrivecchi: privacy, copyright. Qualcuno obietterà: è la Rete, che dà voce anche a chi non l’ha. Temuta. Incontrollabile, dunque libera. Giusto. Qualcun altro dirà: è una straordinaria forma di democrazia diretta. Meno giusto. La democrazia diretta non è quella che consegna a una minoranza attiva, spesso su posizioni estreme, il mandato in bianco di una maggioranza, in parte ancora non digitale.

La costruzione europea, le ragioni della globalizzazione, hanno poi prodotto una congerie di norme che la gente fatica a sentire come proprie, spesso non ne comprende la ragione. I governi fanno poco per favorirne l’accettazione. «Lo vuole l’Europa». «Se dipendesse da noi…». Un cittadino non capisce perché con le proprie tasse debba salvare uno sconosciuto che sta in Grecia e ha eletto un governo incline a truccare i conti. Gli sfugge la ragione per cui Google o Facebook e altre multinazionali paghino una miseria al fisco. E continuino a essere celebrati e corteggiati. E se lui sbaglia di poco a compilare una dichiarazione lo Stato lo guarda in cagnesco.

Perché deve sentire il dovere poi di rispettare le istituzioni se vi è qualcuno che le considera come proprie, calpestandole? Ha la sensazione di essere un suddito. A volte trattato peggio degli immigrati che il suo Paese, giustamente per norma di civiltà, accoglie o soccorre. Finisce per pensare che la sua opinione e il suo voto contino assai poco.

Alle elezioni ha scelto, diligentemente, un partito con un programma. Ma poi Bruxelles o il Fondo monetario lo hanno considerato inapplicabile. La larga tendenza europea all’astensionismo ha questa spiegazione. Il senso di impotenza del cittadino medio, il quale spesso non vota o è tentato dalle sirene del nazionalismo e del populismo. Ma soprattutto è immerso nel fenomeno silenzioso dell’evanescenza dei doveri, del loro progressivo svuotamento di significato. Trionfano egoismo e cinismo che sono malepiante resistenti e infestanti.

Una democrazia senza un’appropriata cultura dei doveri e delle regole trasforma i diritti in pure espressioni dell’individualismo. È esposta alla prepotenza e all’arbitrio. L’esercizio della giurisdizione viene scambiato per un sopruso del potere. E le sentenze e le pronunce della magistratura appaiono ingiuste. La cura migliore è quella che tiene unite le comunità più solide, anche piccole, ma consapevoli della propria storia. Società nelle quali scuola e formazione non hanno un ruolo ancillare. Sono il miglior investimento. E c’è un dovere – non scritto in alcuna legge – ma frutto della tradizione e del buon senso. Il dovere della restituzione alla comunità di parte di quello che si è avuto. In forme libere. Perché senza una società dei doveri non c’è né la promozione del talento né il riconoscimento del merito.

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