La sindrome della porta chiusa dell’avvocato [di Rita Dedola]
Il racconto fa parte di Piccole storie recluse racconti scritti da donne e letti durante il Seminario Michel Foucault: Istituzioni totali e comunità ospitanti all’interno dell’iniziativa Il primo miglio organizzata da FAI Sardegna per la riapertura dell’ex Carcere di Buoncammino il 2 e 3 maggio. La prima volta che sono entrata in un carcere ciò che più mi ha colpito sono stati i cancelli e le porte. La misura della compressione della libertà l’ho avuta, non dalla esistenza delle recinzioni, dalle sbarre alle finestre o dalle bocche di lupo, ma dalla sensazione della impossibilità di governare l’apertura e la chiusura delle porte. L’impossibilità di muovermi liberamente anche all’interno di uno spazio chiuso e sorvegliato. Per spostarti devi attendere che le guardie ti aprano o ti chiudano una porta. Ancora oggi, dopo quasi trent’anni di professione, la sensazione che mi dà la porta che si chiude dietro di te e che non puoi riaprire autonomamente, è di smarrimento. Uno sconvolgimento che l’esperienza ti porta a razionalizzare, ma lo smarrimento rimane, caparbiamente attaccato alla coscienza. Allora diventa infinita la carità per chi vive, suo malgrado, in un luogo dove non basta essere sorvegliato, ma dove tutto, o quasi tutto, è organizzato e scandito per te, da altri. In questo sfondo, qualche anno fa, mi è capitato di provare un profondo malessere quando, obbligata da una particolare situazione, sono stata chiusa per una mezz’ora, insieme ad un mio cliente in custodia cautelare, in una piccola cella adibita ad infermeria.Era autunno inoltrato, la sensazione di panico dovuto alla clausura è stata immediata, ma non potevo far vedere ciò che provavo, a chi in quella situazione, si trovava da mesi, non sarebbe stato decoroso, soprattutto nei suoi confronti. Allora per vincere la paura mi sono concentrata sul finestrino della cella, un piccolo riquadro, aperto verso la campagna e il cielo appena velato, del tramonto, ho respirato, profondamente, per trovare la forza di non urlare e scappare da quella costrizione opprimente e angosciante. Da allora mi capita di rivivere quella sensazione di chiusura imposta e la sofferenza che ho patito, seppure limitata nel tempo, e penso a chi, da carcerato, quella sofferenza la vive lungamente, spesso in ozio perché non può lavorare; a chi, per ragioni di sicurezza, non ha accesso neppure alla lettura; agli sguardi dei miei clienti reclusi, quando vado a trovarli e rifletto, impotente, davanti a quelle porte che non posso aprire, sulla crudeltà del concetto stesso di carcere.
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Carissima Rita. Anche io sono entrato per lavoro nel periodo di operatività nel carcere di Cagliari. Ho avuto modo di visitare le sale operatorie e le infermerie per delle forniture, ed effettivamente la chiusura delle porte di ingresso è la prima esperienza negativa che si prova al suo ingresso. Spesso, nel tempo, le amministrazioni hanno cercato di attivare internamente anche dei servizi avanzati di assistenza medica, ma, per questioni di ostilità nei confronti della struttura da parte degli operatori sanitari che nel tempo si sono succeduti, i progetti sono sempre naufragati, anche quando già erano stati acquistati i presidi e le apparecchiature. Quindi il tema che hai affrontato è sicuramente una realtà importante, molto di più di un’esperienza personale.
Un carissimo saluto.
Con amicizia.
Massimo