S’oltu ‘e nanti [di Franco Mannoni]
Nel momento più cupo della seconda guerra mondiale, quando feroci bombardamenti infierivano sulla città, molte famiglie la abbandonarono per trovare rifugio nei piccoli paesi delle zone interne dell’isola. La tempesta aveva avuto inizio nei primi mesi del 1942 ad opera dei bombardieri inglesi e avrebbe proseguito la sua devastazione con l’arrivo di quelli americani. Gli sfollati, così erano chiamati e così essi stessi si definivano, avevano lasciato le loro case e la città, nella quale scarseggiava tutto, anche i beni più essenziali per campare, utilizzando i mezzi di trasporto più diversi, secondo le possibilità che a ciascuno, estemporaneamente, si presentavano. Così c’era chi utilizzava il treno, chi i sempre più rari autobus, chi i camion caricati fino all’inverosimile, chi i carretti trascinati dai cavalli. Fuggendo dalle bombe e dalla indigenza che assillavano la città, ci si dirigeva ai paesi di origine, con l’idea di trovare accoglienza nelle case dei parenti che ancora vi risiedevano. La più parte però, di radici cittadine, andava ansiosamente alla ricerca di un rifugio verso i paesi nei quali si aveva qualche conoscenza o, infine, affidandosi alla buona sorte. Un vero e proprio esodo, un’ondata che si andava spargendo su molte contrade, che avrebbe lasciato, nel successivo ritrarsi, una scia di nuovi rapporti e situazioni umane, creando legami e parentele, dando vita ad un miscuglio che senza questo fenomeno doloroso non si sarebbe mai realizzato. A noi era toccato l’esodo a Pittiri, il paese di nostro padre, dove giungemmo in calesse in un pomeriggio di primavera.Il paese ci apparve adagiato sul costone di una collina di pietra vulcanica, a cinquecento metri d’altezza. Sovrastato dalla mole del Monte Mannu, che chiudeva l’orizzonte a nord ovest, si affacciava a sud est su una vallata ampia e solatia, definita, sul versante opposto, da colline di calcare che ne esaltavano la luminosità. Dove la valle si allargava , a levante, verso la pianura, si copriva di un grande bosco di querce, ricco di sorgenti e di vestigia di antichi insediamenti. L’abitato era disposto sul fianco della collina e si sviluppava lungo la sua strada principale, come un festone al quale erano collegate diverse stradine in discesa, alcune delle quali convergenti su una piazza dominata dall’antica chiesa medievale. Incombeva sul paese, a occidente, la mole del monte Mannu, in gran parte coperto da una pineta adulta. Quasi mille abitanti contava la popolazione del borgo. Di cosa vivessero è facile immaginare. Meglio forse dire di cosa sopravvivessero, viste le condizioni dell’agricoltura praticata nei declivi verso valle e l’esigua pastorizia nella quale era impegnata una parte dei pittiresi. Definire modeste le abitazioni costituisce più che un eufemismo. Case povere e primitive, costruite con pietra lavica e organizzate su uno schema essenziale, centrato sul focolare posto nel mezzo dell’unica stanza che fungeva da soggiorno, da cucina e da luogo di produzione, nel quale si quagliava il latte da trasformare in formaggio. Il fumo del focolare si innalzava nel locale per trovare sfogo attraverso le fessure appositamente praticate fra le canne del tetto. In noi bambini, cresciuti nelle case pur modeste della città, suscitava meraviglia la convivenza delle persone e degli animali: le galline razzolavano all’esterno come dentro alle case, nelle quali talvolta era possibile trovare alloggiata la capra che forniva il latte per il consumo familiare. Nel villaggio si trovavano anche abitazioni di minor disagio e di miglior decoro. Erano le case dei pochi benestanti, dei proprietari dei più consistenti patrimoni terrieri, del mugnaio e del medico e del parroco. Sistemate in maniera, diciamo così, civile. Trovammo ospitalità, per intercessione di parenti, presso un’anziana signora, che disponeva di una camera da letto sufficientemente attrezzata da dare in affitto, con uso di cucina. Questa era costituita dal solito stanzone, con al centro il focolare e da un lato la cupola del grande forno per la cottura del pane. Le pareti e il sottotetto di canne erano laccate da una compatta patina nera di fuliggine. Dalla cucina si usciva nel cortile che svolgeva diverse funzioni. Vi si allevavano le galline, peraltro autorizzate a razzolare sul pavimento di terra battuta della cucina, ed il maiale in attesa di immolarlo a novembre, in occasione della festa di S. Andrea. Nell’angolo più riposto del cortile, a ridosso dell’alto muro di cinta, vi era uno spazio per i bisogni corporali, l’assolvimento dei quali era non raramente disturbato dall’invasivo grugnire del suino. Quel muro rappresentò per me, fin dal primo momento, una ragione di curiosità ed un mistero da svelare. Cosa c’era al di là da esso? Si intuiva che non dovessero esserci altre abitazioni, perché non se ne avvertivano i rumori e il normale vociare. Forse una campagna, forse una pietraia. Appresi che si chiamava ‘S’oltu’e nanti’, quindi doveva essere un terreno coltivato, forse. Nelle esplorazioni, caute, che svolgemmo, noi bambini, quello spazio restò, per un certo tempo, l’area della curiosità inappagata, del mistero. Sembrava che i nostri vicini di casa, nonostante la temperie bellica, se la passassero discretamente. L’anziana madre era un’ostetrica ,che nei decenni aveva aiutato molti abitanti di Pittiri a venire al mondo. Gli introiti della professione le avevano consentito di mandare alcuni figli agli studi e di condurre un tenore di vita nettamente superiore a quello della gran parte dei compaesani. La loro casa era ampia, costruita su due livelli, dotata di una spaziosa cucina ben rifinita, con un largo camino nel quale la fiamma andava senza interruzione per diversi mesi all’anno. Le stanze odoravano di pulito, di grano ammassato nei magazzini adiacenti, di mele cotogne raccolte nel primo autunno e disposte nelle soffitte a maturare. Tutto era tenuto scrupolosamente in ordine dalle cure maniacali di una delle figlie, animata da un puntiglioso zelo domestico. Quando l’occasione me ne forniva il destro, percorrevo stanze e corridoi con l’aria dell’esploratore ed avvertivo una punta di ammirata invidia per l’ampiezza degli spazi e la disponibilità di oggetti. Sul retro della casa , verso la collina , si apriva un piccolo giardino, ricco di rose rampicanti, di gerani, di garofani e bocche di leone, al quale seguiva un orto dal quale si ricavavano, di tempo in tempo, verdure, patate, pomodori e fagiolini. L’area era chiusa, ad occidente, da un’alta siepe di biancospino, nella quale si iscriveva un cancello di assi di legno attraverso il quale si poteva accedere a S’oltu ‘e nanti. O, meglio, sarebbe stato possibile accedervi se se non fosse stato severamente proibito ai bambini di varcare quel cancello. Ma non era l’unica area interdetta alle nostre infantili frequentazioni, in quella casa, nella quale il gruppetto di due o tre che avevamo creato trovava ospitalità e qualche mandorla fresca di regalo. Un’altra era costituita da quello che mi si rivelò un via di mezzo fra il magazzino, l’officina e il luogo di trasformazione dei prodotti dei campi. Infatti vi si trovavano attrezzi agricoli, un vecchio massiccio trattore dalle ruote di ferro, il torchio e le vasche di trachite per schiacciarvi i grappoli d’uva al tempo della vendemmia. Infine, coperta in parte da una grande tela incerata, , una “Balilla” immobilizzata dalla mancanza di pezzi di ricambio e di pneumatici. L’accesso al locale mi fu consentito per la vendemmia, quando il portone di legno che dava sulla strada, a fianco alla nostra casa di sfollati, venne spalancato per consentire di trasportare all’interno, scaricandole dai carri a buoi, le ceste ricolme di grappoli. Fu, quella, la circostanza in cui feci la conoscenza di alcuni soldati. Ve ne era una compagnia acquartierata alla periferia del paese , impegnata più a combattere contro la scarsità del cibo che ad affrontare il nemico armato. Alla ricerca di quella che potremmo chiamare integrazione di vitto, diversi militari si offrivano per compiere piccole attività di servizio nel paese, in cui le braccia scarseggiavano proprio a causa della mobilitazione per la guerra. Il tutto in cambio non di denaro, tanto scarso quanto poco utilizzabile, ma di vettovaglie. Così alcuni di essi, in occasione della vendemmia, avevano rispolverato l’anima contadina e si erano adoperati a trasportare le ceste ed a pigiare l’uva calpestandola a piedi nudi dentro i vasconi di pietra. Fra di loro un erculeo friulano dalla folta barba rossiccia, che senza eroici slanci di fantasia, era chiamato da tutti Barba ed era un formidabile lavoratore. Fu durante una mattinata di settembre, quando l’odore forte del mosto si diffondeva nel vicinato, che sentimmo, pur da lontano, il rumore della guerra. Bombardavano, gli aerei inglesi o americani, la città e l’aeroporto di Alghero. Nel lucido mattino si udivano, trasportati dal vento, i boati delle bombe sovrapporsi al crepitio della contraerea. Il gruppetto di bambini che giocherellavano intorno al lavoro degli adulti, diede ascolto al consiglio di Barba che imponeva di gettarsi ventre a terra al riparo di qualche pietra. Fu quella l’occasione per scoprire che dal magazzino, attraverso una piccola porta di assi grezze, ci si poteva affacciare verso S’ortu ‘e nanti, anche se quel primo sporgersi fu più che altro un occhieggiare rapido e furtivo, tenuti come eravamo dall’obbligo, al crepitare dell’artiglieria e all’eco delle esplosioni, di restare distesi e spiaccicati al suolo in atteggiamento di difesa. La scoperta della porta ci consentì di osservare un esteso campo delimitato, sul lato opposto al nostro punto di osservazione, da una cortina formata da una fitta siepe di fichi d’india , intramezzata da alcuni grossi eucalipti e da diversi mandorli. Richiudemmo in breve la traballante imposta tornando alla posizione orizzontale di cautela che ci era stata propinata. In quelle giornate di primo autunno coltivammo però il proposito di un accesso meno fugace in quel terreno che ci appariva un obiettivo da raggiungere, un luogo libero da impedimenti e da regole nel quale scaricare la nostra curiosità e la nostra esuberanza. La piccola pattuglia era costituita, oltre che da me, da Peppino, nipote della nostra padrona di casa, e da Manlio, il fratellino minore. Peppino era timoroso e fragile, di salute incerta, magrolino , dicevano, perché affetto dai “vermi”. Mi avevano messo in testa che la malattia potesse essere contagiosa, per cui quando andavo in fondo al cortile per i bisogni grossi, cercavo di verificare, con preoccupazione, che i vermi non comparissero nei miei residui. Il fratellino, minore di circa un anno, era rotondetto e colorito come una mela, ed aveva il pregio di seguirci senza discutere. Fu grande la nostra sorpresa quando, in un pomeriggio ventoso di ottobre, facendo capolino dalla porta del magazzino nel quale ci eravamo furtivamente introdotti, potemmo vedere che il terreno era occupato da gruppetti di soldati dediti ad una attività che in un primo momento non capimmo, per poi verificare con emozione che si trattava di una esercitazione di tiro con le armi leggere. -Stiamo nascosti, sussurrò Peppino, perché se ci scoprono chissà cosa ci fanno! Al crepitare dell’arma, abbassammo la testa e ci coprimmo le orecchie con le mani. Al primo interrompersi degli spari però, rapidamente abbandonammo carichi di emozione e di tremori la postazione per far ritorno a casa. S’oltu ‘e nanti ci aveva svelato una parte del suo mistero: era il luogo delle armi, nel quale i grandi, i soldati si preparavano alla guerra, forse si disponevano a fare, dell’orto, l’estrema difesa del paese da un nemico invasore. Questo innesto di fantasia su una realtà banale contribuì a creare materia di sogni tumultuosi e ricchi di tensione , nei quali clangori guerreschi si intrecciavano a spiccioli di realtà. Si poteva sognare cioè un’invasione di nemici armati che riuscivano a invadere le cantine dei vicini, per impadronirsi di salsicce e bottiglioni di vino aspro. In effetti le esercitazioni erano tenute alla buona da soldati contadini che, in un paese di contadini, nel quale, se non fosse stato per la mancanza del tabacco e del filo da cucire, la guerra non sarebbe stata avvertita. Non molti giorni dopo la nostra scoperta la compagnia di soldati, per superiori disposizioni, lasciò il paese, diretta chissà dove . Lasciarono anche una scia di pidocchi che per lungo tempo le madri dovettero estirpare dalla testa dei ragazzini. A primavera inoltrata si ricostituì il gruppetto degli arditi esploratori determinati a ritornare sul luogo della prima scoperta. La visita a S’oltu’e nanti coincise con la maturazione dei ceci. Infatti qualcuno dei nostri vicini aveva pensato bene, nel tempo opportuno, di seminarvi i ceci che, a primavera, avevano ricoperto il terreno di una distesa di verde tenero. Conoscemmo il gusto, fra il dolce e l’asprigno, di sgranocchiare i ceci ancora in via di maturazione, sgusciandoli dai baccelli pelosi. Percorremmo più volte il perimetro del terreno, gettando lo sguardo oltre le siepe, verso la zona di Fraus, verso la zona dove sapevamo esserci una fontana di acqua buona. Ben presto S’oltu non ebbe più misteri e finì per apparirci familiare e usuale. In sostanza avevamo solo spostato il confine e un altro limite ci si opponeva , e Fraus sarebbe stato difficile da raggiungere. Al termine di una di quelle lunghe giornate della tarda primavera , mio padre, che prestava servizio come militare in una località vicina a Cagliari, arrivò a Pittiri per una breve licenza in famiglia. Ci stavo insieme raramente, in quei tempi di separazioni e di timori, e al suo arrivo lo guardai ammirato e attento. Era affaticato, aveva percorso molti chilometri a piedi portandosi appresso una valigia di beni difficili da reperire e preziosi per attivare l’economia del baratto. Stanco, si gettò sul letto e si addormentò. Fu in uno di quei giorni che mi condusse alla cima del monte Mannu. Sulla porta di casa ci apprestavamo all’escursione quando avvertimmo il rombo di un motore. Sapevamo che esso annunciava il passaggio rapido del centauro. La moto compariva all’improvviso preceduta dal rombo del motore, riempiva della sua sonora presenza la strada bianca di polvere, scompariva in una nuvola accelerando. Il pilota vestiva un giaccone di pelle, sopra la tuta da meccanico. In testa portava una sorta di cuffia da motociclista, o forse da aviatore, tenuta ferma dai tiranti degli occhialoni che ricoprivano gran parte del volto. Una visione ad un tempo affascinante e paurosa. Evocata oggi, mi sembra risentire di sapori felliniani, mi coglie il dubbio, cioè, che il ricordo non sia il ripescare immagini e vicende dal deposito della memoria e così, tal quale, descriverli e raccontarli. Non c’è neutralità, obiettività nella memoria, ma rilettura dei fatti, dei sentimenti attraverso il filtro degli stati dell’anima e della mente così come ,nel tempo, si sono andati costruendo aggiungendo e modificando. E’ plausibile, perciò, che fra quei fatti e la loro attuale ricostruzione, si sia interposto, come altri, il filtro felliniano. Che aiuta a ricordare ed a dare un senso, narrativo, onirico, poetico al richiamo. I bambini, me compreso, presentendone, al rombo lontano, l’arrivo, si precipitavano fuori da casa giusto in tempo per vederlo sfrecciare e scomparire nella vicina curva. Non aveva volto, forse dentro il giaccone e la tuta non c’era neppure un corpo, forse si trattava di un fantasma. Fra l’apparire e il disperdersi solo pochi secondi, un baleno rombante. Troppo e troppo poco per raggiungerne una conoscenza ragionevole. Abbastanza per provocare inquietudine e fantasie. Sembrava portatore di un compito preciso, di una missione che esigeva determinazione e ardimento, circondata dal mistero. Rappresentava allora, e oggi, un’idea, un’immagine. Passare e scomparire, senza altro segnale se non il rombo del motore e la traccia lasciata sulla ghiaia dalla frenata prima di piegarsi nella curva. Chi può sapere di quale messaggio o di quale compito fosse depositario? Subito dopo il passaggio della moto, ci avviammo sulla strada che portava alle pendici di Monte Mannu. L’ascesa, all’inizio abbastanza agevole, diveniva più faticosa con l’inoltrarsi del sentiero nella pineta. Si procedeva, per larghi tratti, all’ombra delle ampie chiome, per emergere poi nel sole forte del mattino che cresceva. I primi ciuffi di papaveri macchiavano di larghe chiazze rosse l’erba già tendente al giallo. Mio padre camminava lesto, senza esitazioni, destreggiandosi fra le sconnessioni del sentiero. I sardi delle zone impervie di collina e di montagna possiedono una connaturata abilità nel muoversi sui terreni accidentati, meglio fra le pietre ed i rocciai, come se un’abitudine acquisita fin dall’antico, andando appresso alle bestie o alla ricerca del capo smarrito, abbia finito per sedimentarsi nell’impronta genetica. Tuttavia procedeva con gradualità, spesso misurando il suo passo sul mio. Le mie esili gambe erano spinte alla fatica più dall’orgoglio di affrontare una nuova prova che dalla forza intrinseca. Con il procedere lungo il costone del monte Longu lo sguardo aveva più agio di distendersi sulla fascia dei coltivi intorno al paese, cogliendo la presenza degli ortolani e dei vignaioli all’opera. Seguendo il sentiero serpeggiante, tagliato nel terreno bruno e rugginoso generato dalla roccia vulcanica, giungemmo con il fiato grosso, all’apice scoperto del monte, nei pressi della stazione radio militare che allora vi era installata. Era la primavera del 1943 Lo sguardo percorreva uno sfondo di colline calcaree dal profilo dolce, divise da vallate larghe e solatie, sulle quali poggiava un reticolo tracciato dai muri a secco di pietra bianca. Poca vegetazione , macchie di sughere, quadrati di vigneto, pascoli aperti. Lontano, verso i contrafforti di rilevi più aspri, al di là del fiume, il nastro ferrigno dei binari del treno. Pittiri dall’alto appariva come un aggregato di tetti di tegole il cui rosso, per gli effetti del tempo, trascolorava a volte nel bruno, a volte sul muschiato. S’oltu ‘e nanti si mostrava come un piccolo riquadro di campagna al confine dell’abitato, verso ponente, minuscolo. Girandosi intorno si compiva una escursione visiva pressoché circolare lungo l’ondulata linea di quello che mio padre mi illustrò essere l’orizzonte. Lo straordinario e complesso gioco della mente fa sì che, molti decenni dopo, alla parola orizzonte venga associato quel paesaggio e non uno delle migliaia di altri, usuali o straordinari, indifferenti o emozionanti, che mi è occorso di vedere . Al fondo però vi è la forza che la componente emotiva attribuisce alla conoscenza. Il concetto di orizzonte nel caso si incide collegato alla conquista della cima e all’insegnamento del padre.
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