La sconfitta dei laburisti in Gran Bretagna: l’alternativa tra identità e “second best” [di Walter Piludu]

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La dura sconfitta del Labour Party, ricollocato da Ed Miliband su posizioni di sinistra più ortodosse, pur senza fare accostamenti superficiali, parla anche alla situazione italiana. Il quesito, in modo secco e schematico, è se, in politica, sia più giusto scegliere i richiami all’identità (sociale, culturale , ideale…) esponendosi alla sconfitta per la guida del paese o sia più etica la second best, una scelta di compromesso, competitiva per la vittoria.

Ovviamente c’è un uso forzato del concetto : tecnicamente, com’è noto, second best è il comportamento elettorale di chi, al primo turno vota per il suo candidato o partito e, al secondo turno, se il proprio favorito non è più in gara, vota per il meno distante, ossia la seconda scelta. A suo tempo, un quarto di secolo fa!, privilegiai una scelta di appartenenza: sbagliai, però temo che, a parità di situazioni, rifarei lo stesso sbaglio. Ma quella comunque era un’altra storia, molto più coinvolgente, la storia del partito di Togliatti e di Berlinguer, una storia molto densa di valori e significati e passioni.

In coerenza con le mie scelte, non mi sento di criticare più di tanto chi, in una situazione di conflitto politico, fa una scelta identitaria. Tuttavia ritengo legittima la domanda prima formulata. E per uscire da una astrattezza metodologica, è utile cercare di affrontare quello che sta avvenendo dentro il PD. A cosa può portare la fuoriuscita a sinistra di esponenti ed iscritti di questo partito?

La risposta più realistica è quella della costruzione di un nuovo rassemblement a sinistra, alimentato dalle truppe di Vendola e dell’opposizione sociale organizzata da Maurizio Landini. Ora, stando ai risultati, lusinghieri ma ancora pericolosamente adrenalinici, dei primi sondaggi, questa aggregazione potrebbe valere tra il 7 e il 9 %: abbastanza per far rischiare una bruciante sconfitta al PD, della quale si avvantaggerebbero o il M5s o il prossimo competitor della destra, nulla ovviamente se l’obbiettivo è quello, come dovrebbe essere, di governare il paese. E allora, che fare ?

Io penso che innanzitutto bisognerebbe abbassare i toni e compiere delle analisi più veritiere della situazione. Io ragiono da estraneo al PD, ma non da estraneo alle ragioni della sinistra di governo. Sono molto molto distante, culturalmente prima che anagraficamente, da Renzi. Molte azioni di merito non le condivido: dalle ipotesi di riforma della scuola al Senato non elettivo, dalla scelta simbolico-sociale sull’articolo 18, che muta i rapporti di forza nei luoghi di lavoro senza peraltro che sia garantita la ripresa degli investimenti e delle assunzioni, alla conduzione sbrigativa del suo partito.

Non mi sembra peraltro né veritiera né onesta una analisi che giudichi perso per la sinistra il PD. Lo dicono gli 80 euro: benchè, ancora?, ininufluenti sul ciclo, sono stati un significativo segno di equità e di sostegno alla domanda; lo dice la riforma, non ancora legge, del bicameralismo perfetto; lo dicono l’ingresso risoluto del PD nel PSE e l’approvazione di una riforma elettorale che, col meccanismo del ballottaggio, corona un grande obbiettivo di trasparenza lungamente inseguito dalla sinistra.

Allora, per tornare al quesito di partenza, poiché non è indifferente per il popolo della sinistra l’evoluzione politico-culturale del PD e, anzi, è interesse collettivo della democrazia italiana che esso continui a riconoscersi nelle ragioni della sinistra riformatrice, non può non suscitare preoccupazione l’abbandono di personalità e forze che potrebbero ostacolare negative torsioni interne.

La responsabilità principale di ciò che sta avvenendo è in chi dirige questo partito, nel clima interno che si è creato. Ma se il PD è – e la stessa ascesa di Renzi lo conferma – un partito contendibile, è responsabilità anche di chi legittimamente ha posizioni diverse dall’attuale leadership quella di non mollare, di battersi perché, pur con l’atteggiamento di lealtà verso chi detiene oggi la maggioranza dentro il partito, possano competere e nel tempo eventualmente affermarsi ipotesi e leadership diverse, ma ugualmente vincenti, da quella renziana.

Le scorciatoie identitarie sono comprensibili e, a loro modo, rispettabili ma anche, almeno filologicamente, oggettivamente mensceviche. L’etica della responsabilità impone invece la ricerca delle condizioni nelle quali l’affermazione dei propri valori e delle proprie idee sia indissolubilmente legata alla possibilità, con tutti i compromessi necessari, di metterle in pratica attraverso l’attività di governo. Almeno per chi non si rassegna alla possibilità che la destra torni a governare il paese.

 

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