Sardo, lontano dall’Italia [di Nicolò Migheli]
L’Unione Sarda 23-5-2015. Quando è che i sardi divennero italiani? Con la Perfetta Fusione del 1847? No di certo. Il rapporto che la Sardegna ebbe con il Regno d’Italia durante l’Ottocento fu in gran parte segnato dalla delusione delle èlite che all’Unità parteciparono con entusiasmo, e dalla estraneità dei ceti popolari. Fu la Prima Guerra Mondiale e il seguente fascismo a fare penetrare nei sardi l’idea di appartenenza all’italianità. Mario Cubeddu nel suo “Lontano dall’Italia. Storie di nazionalizzazione della Sardegna (1915-1940)” ed. Condaghes, Cagliari 2015, racconta del Circondario di Oristano; gli avvenimenti che in quei tempi convulsi determinarono l’essere sardi. Un affresco dove i fatti minimi assumono la dignità di grande Storia. In questo panorama il ruolo di Seneghe, luogo centrale delle vicende del sardismo prima e del fascismo dopo. Due amici, poi nemici: Paolo Pili ed Antonio Putzolu che ebbero ruolo importante nel Psd’A prima, nel partito fascista dopo. I prodomi di un comportamento diventato abituale in seguito, sperare di poter condizionare la politica dei governi italiani aderendo ai partiti che lo costituiscono. Aspettative disilluse. Pili messo ai margini e Putzolu, nonostante il successo personale, che non riesce a condizionare la politica fascista nell’isola. Per un breve tempo è il rurale ad avere la meglio sulla città, saranno poi le èlite urbane a riprendersi il controllo e segnare tutto il Ventennio. Un tempo che trova origine e motivazione in quell’esperienza collettiva che pastori e contadini fecero nella Grande Guerra. Il libro descrive il coinvolgimento nel conflitto delle popolazioni dell’isola. Fin nei paesi più piccoli già nel 1915 comincia a nascere la retorica degli “Intrepidi sardi”. I funerali dei primi caduti partecipati da tutta la popolazione, poi però sempre meno. L’entusiasmo cede all’ansia e alla preoccupazione, i genitori in lacrime che salutano i figli con la quasi certezza di non vederli più vivi. Un martirio che agisce da specchio. Sardi che si riconoscono tra loro nella vita dura di trincea, nella morte dei compagni, nell’eroismo. L’Italia che conosce i sardi con un mutamento semantico, da “razza criminale” secondo le definizioni di Lombroso, a etnia combattente secondo gli articoli di giornale. Il sacrificio di una generazione. In questi tempi di ricordo che spesso cedono alle esaltazioni acritiche, è bene leggersi “Lontano dall’Italia”. Tra le innumerevoli informazioni, un aspetto ignorato: il dramma dei reduci sconvolti dalla guerra e affetti da choc post traumatico. Soldati che scivolano nel banditismo compiendo rapine ed omicidi. Giovani uomini, incapaci di sopportare le sofferenze del corpo e dell’anima, si suicidano. Mariti che uccidono le proprie mogli che li hanno traditi. Mario Cubeddu non racconta solo dei nostri nonni e bisnonni, dà notizie fondamentali, ricostruisce un contesto utile per conoscere il Novecento sardo ed italiano, per capire quello che siamo diventati. |
Raccontava mio padre, riportando un episodio che gli riferì il Generale Musinu, mitico comandante di battaglione della prima guerra mondiale, che il grido di battaglia dei suoi uomini che andavano all’assalto delle trincee nemiche era “oche, oche, chi in noe non b’est corte ‘e assise” (riporto la frase come la ricordo, errori linguistici compresi). D’altra parte era ciò che gli alti comandi volevano. E i fanti sardi hanno lucidamente interpretato questa volontà. Pagandone le conseguenze, anche con la vita.