La sinistra al bivio [di Pietro Ciarlo]
La politica sarda è più dignitosa ed onesta di quanto è dato vedere in altri casi, anche se non mancano preoccupanti segnali involutivi. Nelle ultime due legislature non ha comunque brillato per efficienza. Più in generale, il dibattito politico in Sardegna degli ultimi vent’anni ha mostrato un grande deficit: si occupa troppo poco di politiche concrete, e quando lo fa deve scontare due demagogie ugualmente perniciose. La prima è una demagogia per omissione: non si sanno affrontare i problemi concreti quindi si scaricano le responsabilità omissive sullo Stato o comunque su condizioni o soggetti esterni. La seconda è, invece, una demagogia per commissione e riguarda le cose che si dicono o si propongono, più immaginarie che reali, distogliendo energie dal possibile e dal necessario. Il forte sentimento di identità regionale che ci anima è sicuramente un valore aggiunto, eppure esso ha spesso favorito una cattiva pedagogia politica. Ad esempio, non si spiega altrimenti il motivo per cui il consenso alla costituzione della cosiddetta “flotta sarda” abbia raggiunto una dimensione non trascurabile, sebbene la sua gestione fosse del tutto improbabile. Questa politica ha intercettato la genuina necessità dei sardi ad una mobilità certa e a basso costo, ma, invece di prospettare soluzioni realistiche, ha soprattutto messo in moto antichi sentimenti identitari, riproposti secondo rappresentazioni che vengono dal passato e prive di qualsiasi legame con l’effettività dei problemi: una flotta è sempre anche una bandiera. Oggi stiamo assistendo, forse, a un cambiamento di rotta. Non si inseguono più miti identitari impraticabili, nati da una politica debole che non è riuscita a costruire percorsi di reale innovazione. Questa evoluzione appare essere la precondizione necessaria per affrontare i problemi dell’ oggi con la serietà che questi richiedono. Se si dismettono i panni della demagogia, si intende immediatamente come in capo a tutte le regioni, e quindi anche alla Sardegna, si addensi un problema forte, che riguarda il loro stesso destino istituzionale. Fino agli anni ’90, il regionalismo si è giovato del tessuto connettivo fornito da un sistema dei partiti che riusciva a collegare in una rete sistemica amministrazioni locali, regioni e Stato. Oggi la crisi strutturale dei partiti rende difficile qualsiasi cooperazione politica e soprattutto istituzionale. La legislazione regionale è divenuta evanescente, mentre la qualità di quella statale è nettamente peggiorata. A ciò non fiscale o ambientale. La storia insegna che le grandi trasformazioni spesso accadono senza essere progettate. A volte prima ancora che siano consegnate ad un testo normativo, altre volte addirittura in contrasto con scelte normative anche del massimo livello. Forse è quello che è accaduto con la riforma del Titolo V della Costituzione. Infatti, è a partire dagli anni 2000 che il ruolo delle regioni si è, di fatto, straordinariamente ridefinito, trasferendosi, come asse portante, dalla legislazione all’amministrazione. Sono trascorsi ormai quindici anni da quella riforma costituzionale. L’opzione di carattere federalista che la animava è scomparsa non solo nella cultura politica, ma anche dal punto di vista istituzionale. Infatti, non solo tale opzione è stata sostanzialmente abbandonata dal partito che se ne faceva primo interprete, cioè la Lega-Nord, ma anche la legislazione statale che mirava a implementare politiche federaliste è scemata, rimanendo per lo più ineffettiva per difetto di copertura amministrativa, come dimostrato dalle vicende che hanno interessato gli interventi normativi in materia di federalismo fiscale. Il DDL costituzionale AC 2613-A, recante Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, c.d. Renzi-Boschi, prende atto di questa situazione, ristrutturando le competenze legislative regionali, riducendole e introducendo una clausola di supremazia che, attraverso un procedimento legislativo aggravato, legittima lo Stato a legiferare in materie che pure in principio sono dichiarate di competenza regionale. Si prevede in particolare che “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Si è parlato, al riguardo, di una decostituzionalizzazione delle competenze legislative. Altri hanno discusso di una tendenza verso la “neo-centralizzazione”. Più laicamente, forse, deve rilevarsi come una simile disposizione costituisca la positivizzazione di quindici anni di giurisprudenza costituzionale sul principio di leale collaborazione. Ma il punto sostanziale va ravvisato nel fatto che negli ultimi venti anni, la potestà legislativa regionale è stata esercitata “al minimo” in tutte le regioni, anche in quelle considerate di primo piano, più attive ed economicamente forti, come l’Emilia Romagna e la Lombardia. Leggendo la legislazione regionale si constata facilmente come le leggi di sistema siano pochissime e come tutta la legislazione sia sostanzialmente composta da provvedimenti iper-settoriali, molti dedicati al personale, o alle variazioni di bilancio. Questo non vuol dire che la potestà legislativa regionale debba necessariamente essere formalmente cancellata dall’ordinamento, ma piuttosto che essa è avviata ad un rapido ulteriore, silenzioso e indolore deperimento, simile ad un profondissimo letargo dal quale non sembra intravedersi risveglio. Non a caso anche il numero dei consiglieri regionali e il loro status è stato diminuito nel consenso generale e senza colpo ferire. Tutti questi elementi sono sintomatici del futuro delle regioni, una spia di come il loro destino istituzionale sia in fatto diverso da quello che ci si attendeva in passato e da quello che la stessa Costituzione prescrive. Peraltro oltre lo Stato, anche l’Unione Europea è un vero grande legislatore. Un legislatore che esercita la sua potestà legislativa prevalentemente negli ambiti materiali che in via di principio dovrebbero essere di spettanza regionale. A fronte di Stato ed UE non c’è più uno spazio operativo per un terzo soggetto legislativo, per un terzo legislatore, per il legislatore regionale, peraltro già di per sé stesso debolissimo. Il destino delle regioni come istituzioni e come territorio è nell’amministrazione. E’, infatti, amministrando bene che le istituzioni regionali possono realmente porsi come risorsa per il loro territorio. I settori materiali che assorbono gran parte del bilancio delle regioni, come la sanità, il trasporto pubblico locale e l’assistenza, sono governati dalle regioni mediante atti amministrativi normativi, mediante piani e programmi, quasi senza bisogno di leggi regionali. Il problema di chi si occupa della sanità dovrebbe essere come garantire i diritti dei cittadini incrementando la produttività, ma questa non è legislazione, è amministrazione. Si potrebbero addurre molti altri esempi. Ci limitiamo a farne uno solo particolarmente significativo per la Sardegna: in materia territoriale, i piani paesaggistici hanno un forte contenuto normativo e una grande importanza sostanziale, ma non sono leggi, bensì atti amministrativi a contenuto normativo. Da ultimo in Sardegna si percepisce un qualche mutamento di approccio culturale alle tematiche del regionalismo e della specialità. Finalmente non si indulge alla tentazione di captare e strumentalizzare i sentimenti identitari più ingenui dell’opinione pubblica. Ma la realizzazione di questa precondizione non basta. Abbandonando tutte le demagogie più o meno “sovraniste” la Regione deve guardare in faccia la realtà. Capire che è ad un bivio e che il suo avvenire è nella concretezza dell’amministrazione. Le regioni italiane sono mediamente dotate di amministrazioni poco efficienti e corrotte, forse la Sardegna è messa meno peggio, ma ormai è giunto il momento della buona amministrazione e delle realizzazioni. La Regione Autonoma della Sardegna è anch’ essa ad un bivio, o si rialza, e con la concretezza delle sue politiche diviene effettivo fattore di crescita, o si condanna da sola al deperimento, trascinando nel suo declino i suoi cittadini. I tempi incalzano, l’attimo va colto.
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