Ingombranti meraviglie… che siamo riusciti a realizzare ma non siamo capaci di conservare, e forse neanche di capire [di Aldo Lino]
Aprendo…È difficile dire se l’epoca che viviamo sia incline a un sentimento di cosciente nostalgia oppure al ragionamento di istintivo romanticismo. In passato le filosofie di vita seguivano dei percorsi simili alle naturali evoluzioni fisiologiche: come i figli si allontanavano dai padri e si avvicinavano ai nonni, così l’immaginario culturale collettivo rigettava il passato prossimo e spesso abbracciava il passato remoto. Da un po’ di anni a questa parte però tutto ciò che è passato ci intriga e ci appassiona, cattura la nostra attenzione e ci sensibilizza per la sua conservazione. Adesso non solo chiese e chiesette, come direbbe Bruno Zevi, mettiamo nell’elenco delle cose belle del passato, ma anche fabbriche, opifici, infrastrutture, macelli, prigioni, che sono di un passato recente… Edifici tutti ormai inadatti a svolgere le funzioni per cui erano stati pensati e realizzati, e per i quali ci inventiamo nuove e fantasiose destinazioni d’uso, celebrate cerimoniosamente sull’altare di quelle architetture diventate ormai solo monumenti di se stesse. Perché quelle architetture, se avessero ancora il repellente tanfo delle galere, o l’aria mefitica delle conce, o l’acre putrescenza delle stanze delle tonnare, o l’impalpabile polvere delle cementerie, non saremmo tanto predisposti ad accettarli come luoghi belli: quando l’architettura è sorda e muta e non odora, inspiegabilmente ci affascina. Romantici senza sturm und drang e nostalgici senza grandeur, siamo in fondo degli inguaribili narcisi. E comunque questi edifici sono numerosi, dappertutto, e testimoniano di una società operosa e capace di sovrumane fatiche. Qui in Sardegna è un passato molto abitato che vale la pena di conoscere con qualche esempio. Ingombranti meraviglie, che fare? Il Ponte di Ferro sul Tirso a Solarussa. Si dice che questo ponte sia stato realizzato nel 1889, lo stesso anno della Esposizione universale di Parigi, che si tenne per celebrare il centenario della Rivoluzione Francese costruendo la celebre Torre per opera di Gustave Eiffel. Correva invece l’anno 1918 quando a Cagliari, sulla riva orientale della laguna di Santa Gilla, venne edificata la cementeria. Le sue forme sembravano uscite dal taccuino di schizzi dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia che, giusto pochi anni prima, ci aveva restituito la straordinaria serie di disegni della sua “Città Nuova”. Era la fabbrica dei cementi Portland, destinati alla costruzione della diga sul fiume Tirso (sbarramento che avrebbe formato il lago Omodeo), prima pietra dello sviluppo industriale ed agricolo della Sardegna centrale per i decenni successivi. L’ingegner Angelo Omodeo già una decina di anni prima aveva cominciato i suoi studi per la realizzazione del grande lago artificiale. La Diga di Santa Chiara è l’opera più significativa del programma operativo che la società Imprese Idroelettriche del Tirso portò avanti negli anni Venti, appena cessato il primo conflitto mondiale. Come ci raccontano Giovanni Piscedda e Paolo Pili – il primo con studi entusiastici, l’altro con prese di posizione polemiche sulle bonifiche – per la realizzazione della diga si confrontarono le idee di due valenti progettisti. Quelle appunto di Angelo Omodeo che proponeva una diga a gravità, e quelle dell’ingegnere polacco Luigi Kambo, che ipotizzava una diga ad archi multipli con contrafforti di pietrame e volte in calcestruzzo armato. Entrambe le proposte erano all’avanguardia in quegli anni e furono oggetto di studio e di dibattito in tutta Europa. Venne scelto il progetto di Luigi Kambo (realizzato da Giulio Dolcetta) e ancora oggi, per quel poco che ancora coraggiosamente emerge dal livello del nuovo invaso, questa sorta di Colosseo nostrano ci affascina, conforma il paesaggio in una dimensione nuova, più bella e forse più matura. È ormai sommersa dall’acqua anche l’elegante palafitta su cui si appoggiava il vecchio ponte di Tadasuni, esile nastro stradale su cavalletti che sembrava quasi galleggiare sulle acque del lago, in prospettiva centrale con il fabbricato dell’albergo costruito sulla sponda destra negli anni fra le due guerre. Indubbiamente il nuovo ponte non è da meno per eleganza, snellezza di forme e capacità di incorniciare quel pezzo di territorio. Meraviglia anzi per la sua struttura molto ardita e fino a poco tempo fa potevamo godere ancora del serrato dialogo che stabiliva con le strutture del vecchio ponte. Resta il fatto che è praticamente scomparsa una delle più belle testimonianze del modo di costruire degli anni Venti del secolo scorso: non sarebbe stata una richiesta troppo audace proporre il suo smontaggio e la ricostruzione in altro luogo, come era stato fatto per la chiesa di San Pietro e il villaggio di Zuri. Sul Tirso e sui suoi affluenti possiamo ammirare altri bei ponti, diversi per epoca e per concezione strutturale, che stimolano la nostra curiosità e suscitano il nostro interesse: pensiamo all’imponente ponte di Fordongianus, a quello ancora più imponente alle porte di Oristano (definito ponti mannu), all’ardita arcata del ponte di Allai sul Flumineddu, al ponte in cemento sullo stesso corso d’acqua in prossimità di Ruinas, simile a quello sul rio Mogoro, progettato, con la omonima diga, da Dionigi Scano, il Soprintendente che alla fine dell’Ottocento ricostruì dalle rovine numerose chiese romaniche. E infine il ponte di ferro sul Tirso, in quel tratto di fiume che divide il territorio di Simaxis da quello di Solarussa, costruito negli ultimi decenni dell’altro secolo, in occasione della realizzazione della linea ferroviaria sarda per merito di quell’inglese intraprendente (soprattutto nei confronti dei boschi, nel bene e nel male) che fu l’ingegner Jeremy De Piercy, barone di Badd’e Salighes. Questo ponte è uno degli ultimi esempi di architetture in ferro che sopravvivono in Sardegna, dopo l’ormai lontana demolizione avvenuta negli anni Quaranta del vecchio Mercato civico di Cagliari. Di struttura non ardita, – ma comunque così solida da avere retto, nella incredulità generale, alla grande piena del 1917 – stupisce ancora oggi per l’eleganza e la raffinatezza dei particolari architettonici e l’essenzialità degli elementi costruttivi. Tre grandi arcate d’acciaio a disegno reticolare (del tipo a struttura estradossata) sormontano il corso d’acqua appoggiandosi sui basamenti frangiflutto in cantoni di pietra di natura basaltica. Realizzato in origine per fare attraversare il fiume alla linea ferroviaria – e quindi con i binari posati su un trasparente assito di tavole e travi in legno e ferro – attualmente il ponte è soffocato da un solettone in calcestruzzo costruito per consentire il transito ai veicoli gommati. Tra ponti vecchi e nuovi il Tirso ha impegnato, e continua a impegnare, i progettisti in opere di ingegneria che consentano il suo attraversamento. Dopo il nuovo ponte in calcestruzzo della linea ferroviaria – realizzato per affrancare il passaggio dei treni dal letto alluvionale del fiume, in parallelo al ponte di ferro di cui si è detto – opere più recenti sono il ponte sulla diga di Santa Vittoria ad Ollastra, quello di San Gemiliano a Villanova Truschedu e il viadotto del Rimedio alle porte di Oristano. Anche l’edilizia di supporto alle opere di bonifica ci offre pregevoli esempi di architettura: le case dei guardiani delle acque, che ci ricordano alcune piccole opere di Giovanni Muzio – e vengono in mente le case dei custodi delle centrali idroelettriche sull’Adda, le abitazioni coloniche di sapore neo realista delle varie bonifiche e riforme agrarie, e soprattutto le numerose idrovore, alcune in forme eclettiche, altre modernissime come quella di Sassu, sulla strada che da Santa Giusta porta ad Arborea. L’idrovora di Sassu, costruita nel 1931 e dovuta al grande talento di Flavio Scano, figlio di Dionigi, è una sorta di rapida sintesi in forme eleganti dei principi dell’architettura moderna. Il “Corriere della Sera“, nel settembre del 1934, l’aveva definita “…il più attraente ed il più importante fra i moderni impianti di sollevamento delle Bonifiche d’Italia”. Non dimentichiamo inoltre tutto il sistema di chiuse e sbarramenti su canali adduttori, ancora perfettamente integri nelle loro strutture e nei loro materiali, segnatamente i calcestruzzi, ottenuti indubbiamente con accurata scelta di inerti e leganti, e certamente anche con esigente perizia di dosaggio. Lunghi argini in parallelo al corso del fiume, canali di irrigazione per decine e decine di chilometri, fiumi e ruscelli deviati dal corso naturale (come il rio Mogoro che, sottratto allo stagno di Sassu, venne fatto confluire nello stagno di San Giovanni), centri abitati spostati (come il villaggio di Zuri il cui nuovo impianto con la piazza a forma di stella e la strada in asse con la facciata della chiesa romanica, e ricostruita ad opera di Carlo Aru con il metodo dell’anastilosi, sembra ricordare, in piccolo, il disegno di via Conciliazione a Roma). Infine il villaggio di San Vero Congius, trasferito in territorio franco dall’area di esondazione del Tirso, dove restano, una malinconicamente solitaria e l’altra in pietosa rovina, le due chiese dell’antico abitato, orgogliosamente segnalate da un gruppo di alte palme dactilifere). Interi villaggi sono stati edificati dalle fondamenta, dalla notissima Arborea al piccolo borgo di Santa Chiara, di impianto e di forme di sapore razionalista, costruito negli anni Cinquanta per i dipendenti della Società Elettrica Sarda. Valli pianeggianti sono state riempite d’acqua, depressioni paludose vastissime prosciugate: con questi grandi interventi si è modificato il territorio dell’Oristanese nei primi decenni del secolo. Anche se il bisogno non è venuto meno, adesso sembra che si sia perso il coraggio di operare trasformazioni di quella portata. E il presente non passerà certo alla storia come un periodo di grandi realizzazioni e nemmeno di grandi progetti. Quelle opere comunque segnano il territorio e ne trasformano l’immagine più di qualsiasi altra realizzazione dell’uomo, passata o recente. Erano opere nate innanzitutto dalla necessità di imbrigliare l’irruenza invernale delle acque e creare le riserve per le siccità estive, dalla volontà di bonificare zone malsane, creare una moderna agricoltura e promuovere lo sviluppo industriale con la produzione di energia elettrica. L’archeologo Massimo Pittau ci ricorda come il Tirso altro non sia che la verga usata da Bacco-Dioniso per percuotere la roccia e la terra facendone così sgorgare vivida acqua e dolce nettare di miele e vino. Gli uomini che hanno realizzato tutte queste opere intorno al “grande fiume“, sembra siano riusciti in maniera egregia a mantenere viva questa tradizione cui la mitologia ci obbliga. E, al di là dei moniti, siamo comunque di fronte a una sorta di itinerario inusuale, una singolare epopea, una ingombrante meraviglia che difficilmente riusciremo a conservare.
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