Ingombranti meraviglie…(III) [di Aldo Lino]

Cane Cherbu Cementeria

Abbandoniamo questa volta la descrizione puntuale, l’analisi dei caratteri architettonici, il commento delle qualità ambientali dei manufatti e della loro capacità di trasformare l’intorno. Per lasciare il posto a un racconto di fantasia, il racconto di come potrebbe essere se il tempo non la ingoiasse nella rovina e la natura non prendesse il sopravvento, come potrebbe essere fra cento anni una di queste ingombranti meraviglie.

Il Cementificio di Muros. Piccolo racconto di fantasia

Scala di Giocca, come sarà ancora nell’anno 2115. La leggenda del cane, del cervo e delle ciminiere

Ti appaiono all’improvviso, inaspettate, altere e superbe,
come enormi pietre fitte posate lì da un popolo antico.

Il treno da qualche minuto caracollava sui binari,
trasportando stanchezza e impazienza
con le sue cigolanti vetture dalle ruote di ferro,
nella valle orlata dai bordi boscati delle colline.
Un percorso sinuoso e ondeggiante,
che sembrava ripetere più e più volte
la stessa immagine della stessa morbida terra,
fitta di alberi tanto verdi da sembrare neri,
dove talvolta si apriva, impudico,
a precipizio sul fragile fianco della montagna,
un lussurioso squarcio bianco, di bianca pietra nuda,
a raccogliere, forse, le dolci carezze della luce del sole.

Poi, dopo un’ultima grande curva,
impettite, orgogliose, appaiono loro, le tre sorelle,
le tre ciminiere della cementeria,
come altissime colonne che cercano il cielo.
Sembra quasi che ne abbiano la voglia, che ne abbiano il colore,
sembra quasi che il cielo lo vogliano bucare,
tingendosi di biondo come il tramonto,
quel morbido tramonto dorato
che, spesso, queste terre ci regalano.

Lo sguardo non arriva a vederne la cima,
abbassi velocemente il finestrino per spingerti un poco fuori,
a guardarle fin su, ma sono già passate…
E ti è meraviglia desiderare un andare più lento, magari una sosta,
per riempire gli occhi di questa sorpresa,
per meglio fermarla e fissarla nel ricordo.
Ma ecco, distesa, ancora più grande, eccone ancora una,
enorme, lunghissima, ingoiata dai ruderi degli edifici intorno,
pesante e ingombrante, ma familiare ospite,
quasi che fosse stato impossibile metterla in piedi
insieme alle altre, ancora più maestosa delle altre.

Straordinarie e possenti colonne, pilastri senza tempo,
personaggi primi del teatro della vita, sudata e polverosa,
simboli affascinanti del lavoro e della fatica dell’uomo,
silenziosi testimoni di grandi speranze.

Colonne di un tempio, di un altare sacrificale,
dove la vittima dicono fosse
un bellissimo, meraviglioso, candido cervo,
di cui non aveva avuto ragione, prima,
neanche un feroce e terribile cane.

Chiudendo…

Per via del fatto che, oggigiorno, il nuovo non lo costruiamo più in sostituzione ma piuttosto in aggiunta al già costruito, la quantità di cose del passato intorno a noi ha probabilmente una misura superiore a quella che qualsivoglia epoca della storia abbia mai avuto e conosciuto. Sentiamo il dovere di conservarlo. Giustamente, ma non abbiamo le necessarie forze materiali per custodirle e mantenerle tutte durature.

E così ci inventiamo usi e riusi, nuove destinazioni e riconversioni, centinaia di musei e sale di esposizione per rari eventi culturali e per pochi sparuti visitatori, riconversioni che spesso non durano di più oltre il primo giorno di festeggiamenti per il bene storico ritrovato e recuperato. Forse sarebbe più saggio costruire coraggiosamente il presente con quella (di allora) coscienza e quella (di oggi) conoscenza, la conoscenza e la coscienza delle cose fatte bene, fatte con scienza ed intelligenza, fatte con l’amore di cui hanno bisogno le cose belle, affinché anche il futuro si ricordi di noi per quello che abbiamo fatto di nuovo e di bello e non solo per il nostro amore per il collezionismo, l’antiquariato e il modernariato.

E comunque, anche Giovanni Battista Piranesi, da “mancato” architetto in laguna, ha finito per fare l'”antiquario“, realizzando e vendendo stampe con vedute delle antichità di Roma, sua nuova patria dopo l’ingrata Venezia. Con le rovine che andava illustrando è stato però capace di sognare, inventare e disegnare la città nuova, la città moderna.

Il “comporre” barocco viene abbandonato da Piranesi in favore del “giustapporre”, libero accostamento di elementi diversi in apparente disordine, come efficacemente ci illustra nel suo “Campo Marzio” e nelle sue straordinarie “Carceri“. La “composizione“, che imponeva la gerarchia delle parti, l’unità dell’insieme, l’equilibrio e la simmetria, lascia il campo alla “combinazione“, dove le parti hanno uguale valore, nessun elemento ha prevalenza, non c’è più un “centro“, non c’è più un inizio e una fine e la serie potrebbe proseguire senza soluzione…

Un procedimento additivo che diventerà metodo con gli architetti cosiddetti della Rivoluzione, procedimento rivisitato anche da alcuni capaci progettisti italiani a metà degli anni Sessanta. Una “scomposizione” dove hanno valore i singoli elementi costitutivi nella loro autonomia associati tra loro in “combinazione“, e dove anche gli spazi interstiziali, gli spazi di passaggio, di transito, assumono pregnanza, come nelle migliori esperienze dell’architettura contemporanea, come quando in un muro fatto di tanti piccoli di mattoni, il “comento“, ossia il giunto di malta fra un mattone e l’altro con la trama che ne deriva, diventa il sapiente disegno di un apparecchio murario nelle tantissime varianti che la storia dell’architettura e delle tecniche costruttive ci hanno restituito.

Forse il sapere aude di quel grande architetto veneziano-romano è un osare troppo per noi, piccoli contemporanei dell’ultima provincia dell’impero globale della cultura. Ma la sua vicenda di vita, il suo lavoro e la sua opera sono un bell’esempio di riferimento. Per capire cosa fare di queste ingombranti meraviglie.

 

 

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