Il Palazzo delle Scienze di Cagliari [di Leonardo Mureddu]
Il mio primo ingresso al Palazzo delle Scienze risale a quando ero ancora studente liceale, alla fine degli anni ‘60. Lo devo a un giovane supplente (F. M.), che tenne la nostra classe di quinta per alcuni mesi e si dimostrò all’altezza. Invitò alcuni di noi ad andare a trovarlo nel suo posto di lavoro, all’Istituto di Fisica. Prima di quella visita ero destinato ad iscrivermi in ingegneria. Dopo quel giorno non ebbi più dubbi: Fisica. Forse quel palazzo ebbe un ruolo in questa scelta, con le sue stanze asimmetriche sovraffollate di personaggi bizzarri dallo sguardo un po’ allucinato, tappezzate di fogli di calcolatore stampati con immagini di Einstein o Marilyn Monroe, tutti realizzati con i caratteri della stampante, e da lavagne nere fitte di calcoli, grafici e disegni incomprensibili. Gli arredi erano vari ed eterogenei, quasi come se ognuno si fosse portato uno scaffaletto o la sedia da casa, e forse era proprio così. In realtà tutti gli oggetti sembravano proprietà privata dei singoli utilizzatori. Molti avevano approfittato dei soffitti altissimi per raddoppiare il loro studio mediante arditi soppalchi. Alcune stanze, in semioscurità, ospitavano delle macchine grandi come automobili, che ronzavano lievemente e producevano gorgoglii e gocciolii: una era la macchina dell’aria liquida, mi disse il nostro ospite. Da un’altra parte, ancora più riservato, stava uno strumento ottico basato su un enorme cristallo di cloruro di sodio, quello del sale da cucina, che essendo igroscopico come sappiamo, sarebbe stato facilmente deteriorato dal semplice contatto con l’umidità dell’aria. Altre stanze ospitavano macchinari elettronici, e in una c’era un laser gigantesco. Era il secondo che vedevo, dopo quello molto spettacolare utilizzato in un film di James Bond. Quello era il mondo della ricerca. Uscii da quella visita frastornato ma intimamente deciso. In seguito passai molti anni in quel nobile palazzo, come studente e in seguito come ricercatore, fino a conoscerne la struttura più intima, i sotterranei e certe spaventose voragini che si spalancavano dietro porticine seminascoste: vani per montacarichi mai installati. Niente in quel periodo era chiuso a chiave, niente era veramente proibito: potevi entrare a tuo piacimento in qualunque istituto o laboratorio, fumare liberamente in ogni ambiente, comprese le aule gremite di studenti, potevi andare giù nelle officine a utilizzare trapani e altri attrezzi, e dopo qualche visita e una chiacchierata con i tecnici anche saldatrici, fresatrici e altri macchinari pericolosissimi. La fortunata, momentanea realizzazione di una meravigliosa anarchia. L’interdisciplinarietà era coltivata a ogni incontro, negli androni, nei corridoi e nelle biblioteche, favorita dalla promiscuità tra fisici teorici e sperimentali, elettronici, informatici, matematici, chimici, farmacologi, naturalisti, ma anche epistemologi e filosofi che per tanti motivi gravitavano intorno al Palazzo, anche solo per qualche conferenza o dibattito politico. Erano i primi anni ’70: eravamo tutti molto politicizzati. Una volta, ancora studente, mi spinsi fino alla terrazza: era una foresta di cappe aspiranti, che gettavano allegramente e liberamente nell’aria della città qualunque sostanza mefitica prodotta dai sottostanti laboratori di chimica. In mezzo al frastuono infernale di quella foresta si aggiravano degli individui dal colore giallognolo: erano gli astronomi che occupavano alcuni locali abusivi ricavati qua e là in quell’enorme terrazzo. Il Palazzo delle Scienze, luogo di passaggio e di lavoro per alcuni, fu residenza per altri, e comunque c’erano dei personaggi che ne costituivano la popolazione stabile. Seppi in seguito che il progetto originale del Palazzo prevedeva alcuni appartamenti, da destinare al Preside della Facoltà e ad altri docenti. Il Professor Frongia, storico ordinario di Fisica, abitò per molti anni in stanze non direttamente accessibili dai corridoi principali. Ricordo bene una di quelle stanze, che vidi in occasione del mio primo tentativo di passare Fisica Uno. Tentativo che fallì miseramente. Ricordo con affetto il Signor Lai di Matematica, bidello tuttofare, paterno ed efficiente, l’unico in grado di sostituire le lampadine nei corridoi e nelle aule, con l’aiuto di una scala a libro di legno, altissima e malferma, che manovrava sapientemente canticchiando tra i denti. Le leggi sulla sicurezza erano ancora di là da venire. E poi c’era Castoldi. Una volta, forse ero ancora al primo anno, mi ero trattenuto un po’ a lungo, di sera, nella saletta degli studenti. Quando andai via mi accorsi di essere l’ultimo a lasciare il corridoio di Fisica. Stavo percorrendo l’androne per uscire all’aperto, quando fui chiamato da una vocina dal piano di sopra: “Senta, scusi!” Era un uomo magro, alto e smilzo, che indossava una giacca da camera di raso sopra la camicia e la cravatta. Sporgendosi dalla balaustra delle scale mi chiese gentilmente di chiudere accuratamente il portone dietro di me, per non costringerlo a scendere ancora una volta a controllare. Era proprio il professor Castoldi, l’ultimo abitante ufficiale del Palazzo delle scienze. Castoldi era arrivato da Bergamo negli anni ’50, e avendo rotto con la famiglia (pare che avesse moglie e figli), si era installato in un piccolo appartamento al piano di Matematica, che tenne fin oltre il pensionamento negli anni ‘80, tanto da dover essere “sfrattato” con una delibera della Facoltà. Era docente di Matematiche Superiori, e di Istituzioni di Fisica Matematica per noi fisici. Sapeva molta matematica e molta fisica, ed era una di quelle persone, squisite e sincere, che si divertono veramente col loro lavoro. Amava intrattenersi con gli studenti nei corridoi, discutendo di problemi di matrici covarianti o dei vari quiz che affiggeva ogni settimana alla “sua” bacheca. I suoi occhi apparivano enormi dietro gli occhiali da ipermetrope. Finita la breve conversazione, salutava con un secco “buonasera” e si allontanava velocemente. Tante leggende giravano sul suo conto, ma nessuna merita di essere menzionata. Fu triste il suo abbandono del Palazzo, che da allora cominciò la sua vera e propria decadenza, anche perché nel frattempo la Cittadella Universitaria di Monserrato cominciava ad ospitare nei suoi enormi spazi uffici, laboratori, aule, studenti. *Tecnologo INAF – Osservatorio Astronomico di Cagliari)
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Bellissimo il ricordo dei tempi trascorsi nel Palazzo. Così lo chiamavamo noi studenti di Geologia, che dovevamo frequentare Fisica 1 e Chimica generale ed inorganica con i Naturalisti. Frequentazioni non sempre fortunate soprattutto in periodo di esami. Qualche volta anche esilaranti. Ricordo il primo tentativo di dare Chimica nella sessione estiva del 1966. Ricordo la grande cattedra con i diversi assistenti e i professori incaricati, ognuno dei quali interrogava uno studente. Dietro di loro, nello spazio tra il muro e le sedie dei docenti, il prof. Camillo Dejak che andava avanti e indietro, intervenendo di quando in quando: momento particolarmente temuto da noi studenti perché normalmente l’esame prendeva una brutta piega. L’assistente, magari fino a quel momento tranquillo o addirittura conciliante, si trasformava istantaneamente in “aguzzino”, trattando male – per farsi bello davanti al “capo” – il malcapitato studente. Il mio esame duro’ probabilmente non più di 30 secondi! Ero il decimo che veniva “sbattuto fuori” per non aver saputo rispondere ad una demanda che, in ripetizione seriale, veniva fatta ai poveri studenti. Ricordo ancora il “ghigno” di soddisfazione del “capo” ed il sorriso accondiscendente della assistente che interrogava i poveri studenti di Geologia. La domanda era – scoprii poi che si trattava di una riga e mezza nelle note del Malatesta, Chimica inorganica – “mi parli della iodiotermia dei poliitionati”. E, davanti alla mia faccia da ebete, circa 30 secondi dopo, un perentorio: ” si accomodi”. Con gli altri sventurati studenti di Geologia, una birra ristoratrice, a 15 lire, nel baretto davanti al ProntoSoccorso del S. Giovanni di Dio.