Il mercato nord americano ha promosso il pecorino da commodity a speciality cheese [di Carlo Arthemalle]

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Sardegna soprattutto” ha dedicato grande attenzione a quanto sta accadendo in questi mesi nel mondo del latte ovino e dei suoi derivati, soprattutto in quello del pecorino romano che, essendo il prodotto di punta, detta i tempi a tutta la filiera. Tutto è cominciato sul mercato, quando i consumatori si sono accorti che quel formaggio era niente male e hanno iniziato a portarlo in tavola per consumarlo tal quale. La distribuzione ha chiesto approvvigionamenti alla fonte e quando ha saputo che nei magazzini non c’erano scorte sufficienti ha tirato su il prezzo dell’offerta. Il pecorino che lievita influisce sul prezzo del latte di pecora conferito ai caseifici. Insomma, tutto come spiegano i manuali di economia.

Noi sardi non abbiamo fatto moltissimo per arrivare a questo risultato, abbiamo tolto un poco di sale dal prodotto e abbiamo avanzato timidi tentativi di confezionamento col pecorino offerto a piccole porzioni d’assaggio. Soprattutto abbiamo fatto qualcosa in più per farlo trovare assieme ai agli altri formaggi nei banchi della GDO. Una mano ci è stata data dalla moda di portare la cucina in TV e dai cuochi stellati che propongono ricette che prevedono il pecorino quale ingrediente. Naturalmente a determinare la svolta è stato il mercato nord americano che – e qui ripeto quanto ha scritto Antonello Carta su “Sardegna Soprattutto” ha modificato le indicazioni ai suoi consumatori promuovendo il pecorino da commodity a speciality cheese.

Tanto è bastato perché si aprissero le porte di un altro mondo. Il nostro prodotto cessa di essere un semilavorato, uno degli alimenti che viene acquistato solo perché costa poche lire e che viene grattugiato per poi finire in anonime buste di cheese, mescolato alle più improbabili sostanze. Il pecorino conquista la dignità di formaggio da tavola e il prezzo al consumatore finale si adegua. In conseguenza qui in Sardegna i pastori coltivano il sogno di liberarsi dai debiti e l’industria casearia accarezza la possibilità di sopravvivere senza l’aiuto delle varie sovvenzioni pubbliche. Qualcuno spera addirittura che questa sia la volta buona per emanciparsi dai boss americani che si occupano della distribuzione negli States, imponendo prezzo e condizioni.

L’allevamento ovino è una voce relativamente modesta del nostro PIL. La Banca d’Italia ha quantificato attorno al 5% il peso dell’intera produzione agricola nella composizione del prodotto interno lordo della Sardegna. Se si tiene conto che questo 5% è composto per meno della metà dalla voce allevamenti e che il valore di questi ultimi è dato solo per la metà dal settore ovino si ricava che pecore e pastori più che una risorsa sono, per la nostra Isola, un problema sociale. Ma sappiamo benissimo che non è solo questione di numeri. La pastorizia ha contribuito pesantemente a determinare la fisionomia di importanti zone della nostra Isola e a condizionare la qualità della vita di intere popolazioni.

Questo arcaico modo di produzione è una realtà che per un lungo periodo ha fatto sistema e ha prodotto una sua cultura, caratterizzando parti importanti della popolazione dell’isola, influendo sulla mentalità e sul costume. Una politica che volesse intervenire su questo modo di produzione e sui riflessi che esso determina dovrà necessariamente tener conto di come questa situazione è andata costruendosi storicamente.

Il sistema che metteva assieme distributori statunitensi, caseari e pastori sardi ha funzionato come un orologio per oltre un secolo e mezzo; la famiglia del pastore si incaricava di presidiare il territorio operando le opportune sortite per allargare l’area a pascolo brado anche a danno delle zone coltivate, mentre il più sveglio della famiglia veniva mandato a studiare. Per un secolo e mezzo avvocati, giudici, politici, giornalisti e burocrati provenienti dalle famiglie pastorali hanno difeso il sistema e contribuito a contrastare ogni elemento che lo minacciasse. Il sistema, per sopravvivere, aveva bisogno che il costo di produzione del pecorino da spedire in America fosse compatibile col prezzo d’acquisto che di volta in volta stabilivano i distributori americani.

Per questa ragione l’alimentazione delle greggi non doveva costare più di tanto e per questo motivo un milione di ettari del territorio sardo dovevano restare incolti e adibiti a pascolo brado. Per difendere questi obiettivi il mondo pastorale si è sempre schierato politicamente dalla parte della conservazione e contro le forze sociali che proponevano cambiamenti. Il rapporto con la politica, inoltre, veniva utilizzato per mungere sovvenzioni dalla CE, dallo Stato e dalla Regione sino a sfiorare l’assurdo, in certe annate, di un pecorino che incassava più dalle istituzioni che dagli americani.

Ma il mondo cambia, per fortuna. Il nostro formaggio acquista titolo di specialità gastronomica e nostri caseifici si impegnano per ampliare la gamma dei loro prodotti puntando, sempre di più, sulla qualità. Anche i pastori si muovono e i più avveduti tra loro investono in terreni e danno vita a vere e proprie aziende zootecniche dove il bestiame stabulato viene alimentato con orzo e trifoglio di produzione propria.

In molte zone la stalla razionale prende il posto del ricovero fatto di pietre e di arbusti e questo fatto va interpretato come un buon segno se viene contrapposto alla vecchia abitudine della transumanza e del gregge vagante alla ricerca del pascolo; ma il fatto che in queste oasi la razione delle bestie sia composta, sempre di più, dalla somministrazione di mangimi industriali desta invece qualche preoccupazione.

La Sardegna sa, per esperienza diretta, che gli allevamenti senza terra diventano presto o tardi preda del mangimista e vittime della borsa dei cereali che celebra i suoi riti nella lontana Chicago. Gli esperti intervenuti su “Sardegna Soprattutto” si chiedono come occorra muoversi per evitare che l’alta quotazione del prezzo del latte non si riveli solo un momento di bonaccia in un mare quasi sempre in tempesta. Credo che gran parte dei suggerimenti da loro avanzati debbano essere presi in considerazione e che l’autorità politica più direttamente coinvolta, la Regione sarda, debba muoversi immediatamente con misure appropriate.

L’ideale sarebbe una Regione che, approfittando di un periodo di allentato assedio da parte dei pastori che chiedono assistenza, dedica le proprie disponibilità a sostenere gli elementi di modernità che nel settore esistono e che, nonostante le difficoltà, si sono già manifestati.

Aiuto, quindi, a quanti propongono la realizzazioni di aziende agropastorali, a ciclo chiuso, su terreni propri e anche su terreni che appartengono alla mano pubblica; aiuto, in questo caso esclusivo, ai caseifici che propongono innovazione in tema di prodotto e di pratica commerciale; aiuto alle aziende che operano nel primario e in quello della trasformazione solo a condizione che accettino di operare all’interno di un disciplinare che assomigli a quello del Roquefort o, meglio ancora, a quello del Parmigiano reggiano.

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