Come sarà l’Europa dei popoli? Alla riscoperta dell’antica Lega Anseatica [Adriano Bomboi]
Attorno al XII° secolo nacque una florida rete di città commerciali, interdipendenti l’una dall’altra, e fornite di una caratteristica peculiare: non avevano alcuna capitale. La Lega Anseatica, sviluppatasi sul mar Baltico e nell’Europa settentrionale (dagli accordi scaturiti col Privilegio di Artlenburg in poi), maturò anche una propria flotta militare capace di tutelare i commerci di fronte alle sopravvenute limitazioni svedesi e danesi. Una forza capace di influenzare persino le scelte imperiali. Va ricordato infatti che, per quanto autonome, buona parte delle città erano simbolicamente sottoposte all’autorità del Sacro Romano Impero. Le decisioni venivano assunte collegialmente e non vi era alcun organo monocratico deputato ad interpretare la linea dei membri, i quali, inoltre, preservavano appieno le proprie individualità linguistiche e culturali. Nel mondo contemporaneo non esiste nulla di simile, ma potremmo trovare qualcosa di analogo nelle esperienze istituzionali della Confederazione Svizzera e di Taiwan. La prima, in quanto non dispone di un Capo di Stato ma di un Presidente della Confederazione, la cui autorità è tuttavia subordinata e vincolata dai poteri e dalle caratteristiche cantonali (aspetti che differenziano profondamente il modello elvetico dal diritto costituzionale italiano). La seconda, Taiwan, in quanto l’isola gode di una fattuale indipendenza economica, amministrativa e culturale rispetto alla Cina continentale ed al monopartitismo di Pechino. Fra le maggiori città anseatiche si ricordano Lubecca, Danzica, Rostock, Tallin, Brema, Riga, Amburgo, Kaliningrad e tante altre, ben oltre il Baltico. Fattori esogeni ed endogeni portarono alla progressiva implosione della Lega, lasciando tuttavia ai posteri numerosi spunti di riflessione derivanti dalla natura policentrica del potere che venne posta in essere. Recentemente la Lega Anseatica è tornata ad occupare i dibattiti tra storici, giuristi, filosofi, economisti e politologi, alla luce dei mutamenti istituzionali avvenuti nel vecchio continente: questi mutamenti riguardano, per un verso, l’incremento della sovranità orizzontale (dove il potere non ricade più verticalmente dallo Stato centrale agli enti periferici ma si sviluppa anche a vari livelli dagli enti locali in poi); per altro verso, con il paradossale incremento di una nuova sovranità verticale, quella dell’Unione Europea. Infatti, sebbene siano aumentati gli spazi decisionali degli enti locali, i cui poteri possono parzialmente proiettarsi anche oltre la sfera statale, i singoli Stati hanno ceduto parte dei propri poteri ai vertici sovra-istituzionali di Strasburgo, Francoforte e Bruxelles. Vertici che hanno assunto un carattere scarsamente democratico ed impositivo. I cittadini europei hanno finito così per credere sempre meno in istituzioni sovranazionali che reputano distanti e vicine ai maggiori centri di pianificazione del credito e della finanza, mentre i ceti produttivi hanno incrementato la loro sfiducia a causa della limitazione imposta da regolamenti e burocrazia capaci di premiare unicamente i gruppi economici più vicini al potere politico. Tutto ciò mentre i Paesi in via di sviluppo hanno avviato la loro inarrestabile marcia verso la crescita globale. L’UE si è così configurata come l’evoluzione dello Stato-nazione di derivazione post-napoleonica, dove i processi decisionali non hanno sviluppato un carattere policentrico ma si sono riprodotti verticalmente in scala. Fra i primi giuristi capaci di contestare l’efficienza di istituzioni dotate di una verticalizzazione del potere vi fu Leopold Kohr, che fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso intuì la deriva centralistica che i teorici e gli statisti europeisti avevano promosso come strumento per archiviare i problemi che avevano condotto alle due guerre mondiali. Più recentemente, anche gli studi di economisti come Alberto Alesina ed Enrico Spolaore (The size of nations, MIT 2003), hanno dimostrato che la grandezza dei sistemi istituzionali non corrisponde automaticamente ad una buona performance economica degli stessi (nel 2015 Paesi piccoli come la Svizzera rimangono in vetta alla classifica delle maggiori economie del mondo). Mentre da tempo diversi teorici hanno posto l’accento sul dinamismo economico e sulla trasparenza amministrativa registrata nelle istituzioni di piccole dimensioni, in quanto più vicine ad elettori ed imprenditori nella capacità di non delegare ad organi amministrativi lontani la cura dei propri interessi. Al contrario, negli Stati maggiormente centralistici si sono registrati perduranti casi di spreco delle risorse pubbliche, fiscalismo, corruzione e assenza di responsabilità amministrativa capace di portare ad una esplosione del debito pubblico. Economisti come Lew Rockwell ed Hans. H. Hoppe hanno inoltre sottolineato la pervicace disponibilità di istituzioni centrali ad intraprendere avventure militari all’estero deputate a potenziare e consolidare il governo ed i privilegi di pochi individui su tanti. Ecco quindi che l’esempio storico della Lega Anseatica, il cui policentrismo amministrativo ebbe il merito di diluire ai tanti il potere della codecisione, si offre come opportuno paradigma di riflessione per una futura Europa dei popoli. Recentemente la Fondazione Luigi Einaudi ha voluto ricordare l’esperienza anseatica fra i modelli alternativi del prossimo futuro rispetto alle attuali formule istituzionali, sia statali che sovranazionali. Un possibile strumento per abbattere il titanismo politico che nel Novecento, al culmine della sua maturazione, tutta antidemocratica, portò al sistematico massacro di milioni di individui. Non vi è infatti nella storia nessun’altra invenzione umana diversa dallo Stato-nazione che sia stata capace di pianificare, finanziare e rendere efficientemente operativa la morte su vasta scala. Passare dal governo dei pochi al governo dei tanti richiederà un rinnovato fermento culturale capace di scoprire i vantaggi di un network amministrativo sprovvisto di una gerarchia esecutiva di vertice. Ci riusciremo? Le attuali spinte indipendentiste in seno all’Unione Europea rappresentano un ottimo segnale di indirizzo con cui iniziare a prospettare una più equa distribuzione del potere.
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Contrariamente all’opinione di Adriano Bomboi, non mi pare che nel precedente storico della Lega Anseatica ci sia stato niente di molto diverso dall’ideale che ha ispirato la nascita dell’Unione Europea. Dal punto di vista giuridico, le due istituzioni potrebbero essere classificate come “confederazioni”, non come “federazioni”, cioè come stati veri e propri. Cosi, ciò che manca, significativamente , alla U.E. è proprio una organizzazione militare che gli stati nazionali che la compongono hanno tenuto gelosamente per sé. Com’è noto, le due grandi guerre mondiali del secolo scorso furono il frutto di opposti nazionalismi che per affermarsi e dominare avevano bisogno di debellare con le armi gli avversari. E’ pure noto che se la pace dura in Europa da ben settanta anni, ciò è dovuto al perdurante processo di unione .Oggigiorno, sulla scena mondiale non c’è più il pericolo del razzismo hitleriano. C’è il pericolo forse peggiore del fondamentalismo islamico, che fin dalla sua nascita in Arabia Saudita ai primi del ‘700, col movimento Wahabita ha avvertito il pericolo che per le chiuse società arabe avrebbe potuto rappresentare l’ Illuminismo europeo nascente. In particolare la scissione del potere politico da quello religioso e in generale una società fondata sulle libere scelte individuali.
Ecco una buona ragione per restare uniti e mai pentirci di esserlo sempre più, senza” “se” e senza “ma” . D’altronde, Adriano Bomboi ha ben ricordato che l’unione delle 85 città della stessa Lega Anseatica aveva non solo scopi commerciali ma anche difensivi.
La differenza tra una federazione ed una confederazione risiede proprio nell’alterità non solo culturale ma anche giuridica dei membri. La diversità tra la Lega Anseatica e l’UE oggi risiede, nel primo esempio, nell’assenza di un organismo esecutivo di vertice. L’UE col suo dirigismo economico, monetario e burocratico non può sicuramente essere paragonato al modello anseatico. Dietro l’apparente confederatismo europeo si cela in realtà un percorso federale, quasi teso alla creazione di un super-Stato, dove un unico centro emana direttive verso tutti i membri, a prescindere dalla loro volontà, che spesso non si esprime in termini diffusamente democratici.
Poi è chiaro che i principi di unità commerciale possono essere analoghi, altro discorso però sono le modalità con cui dovrebbero configurarsi tali modelli pattizi.