Paul Krugman:«Ma l’Europa è un disastro la moneta unica è diventata una camicia di forza» [di Paul Krugman]

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La Repubblica, 5 Luglio 2015. Ognuno degli stati che costituiscono l’Unione europea è in crisi, dalla Finlandia all’Italia. Ci sarà un ragione diversa dalla “arroganza” dei leader greci?

In queste ore, discutere della Grecia è deprimente. Quindi se per voi va bene parleremo d’altro. Parleremo, per cominciare, della Finlandia – che di quel Paese corrotto e irresponsabile non potrebbe essere più diversa. La Finlandia è un modello: vanta un governo onesto, un’economia solida e un rating del credito affidabile che le permette di prendere in prestito denaro a tassi d’interesse incredibilmente vantaggiosi. Tuttavia, sta anche attraversando l’ottavo anno di una recessione che ha decurtato del dieci percento il suo prodotto interno lordo reale e che ancora non accenna a finire. Tanto che se l’Europa meridionale non stesse vivendo un incubo, i guai dell’economia finlandese sarebbero considerati un disastro di dimensioni epiche.

La Finlandia tuttavia non è sola: rientra infatti in una regione dell’Europa del nord che vive una fase di declino economico, e che si estende dalla Danimarca (la quale, pur non appartenendo all’eurozona gestisce il proprio denaro come se ne facesse parte) ai Paesi Bassi. Questi paesi se la passano ben peggio della Francia: una nazione la cui economia viene descritta in termini catastrofici dai giornalisti, che odiano la solidità degli ammortizzatori sociali, ma che di fatto ha resistito meglio di quasi ogni altro Paese europeo, ad eccezione della Germania.

Che dire poi dell’Europa meridionale, Grecia a parte? I funzionari europei esaltano la ripresa della Spagna, che ha fatto tutto quanto andava fatto e la cui economia ha finalmente ricominciato a crescere, creando addirittura nuovi posti di lavoro. Il concetto europeo di “successo” prevede però anche un tasso di disoccupazione che continua ad aggirarsi attorno al 23%. Anche il Portogallo ha diligentemente implementato un’austerità rigorosa, ma risulta del 6% più povero.

Come si spiegano tutti questi disastri economici in Europa? Ciò che stupisce, in realtà, è che in ogni paese la crisi sia stata innestata da cause diverse. Il governo greco ha contratto troppi debiti, ma quello spagnolo no: a segnare il suo destino sono stati piuttosto i prestiti ai privati e la bolla immobiliare. Nel caso della Finlandia sono stati determinanti il contrarsi della domanda per i prodotti del settore forestale, che sono ancora tra i suoi principali beni da esportazione, e le difficoltà del manifatturiero, in particolare della Nokia, che un tempo ne era la punta di diamante.

Ciò che queste economie hanno in comune tra loro è invece il fatto che aderendo all’eurozona si sono infilate in una camicia di forza economica. Alla fine degli anni Ottanta la Finlandia stava attraversando una crisi gravissima, che inizialmente era di gran lunga peggiore di quella che sta attraversando oggi. Tuttavia riuscì a mettere in atto una ripresa piuttosto rapida, grazie soprattutto alla forte svalutazione della propria valuta – che la rese più competitiva sul piano delle esportazioni. Purtroppo però questa volta non ha alcuna valuta da svalutare. E lo stesso vale per le altre zone problematiche dell’Europa.

Ciò significa forse che l’euro è stato un errore? Beh, sì. Questo però non equivale a dire che adesso occorrerebbe eliminarlo. La cosa urgente da fare è allentare la camicia di forza: un gesto che richiederebbe interventi su diversi fronti: da un sistema di garanzie bancarie unificato alla disponibilità a concedere una riduzione del debito ai Paesi per i quali è proprio il debito il problema. Richiederebbe, inoltre, la creazione di un ambiente complessivamente più favorevole a quei Paesi che si sforzano di far fronte alla cattiva sorte senza però sposare un’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per innalzare il tasso di inflazione europeo (attualmente inferiore all’1%) per riportarlo almeno all’obiettivo ufficiale del 2%.

Molti funzionari e politici europei si oppongono però a qualsiasi decisione che potrebbe far funzionare l’euro. E questo è il motivo per cui la posta in gioco nel referendum di domenica è persino più alta di quanto molti osservatori immaginino. Una vittoria del “sì” – ovvero un voto a favore delle richieste dei creditori, che boccia la posizione del governo greco e ne determina probabilmente la caduta – rischia di avvalorare e incoraggiare gli architetti del fallimento europeo. Un simile esito darà modo ai creditori di dimostrare la propria forza e la loro capacità di umiliare chiunque si opponga alle richieste di un’austerity senza fine. E di continuare ad affermare che imporre la disoccupazione di massa è l’unica via responsabile da percorrere.

E se la Grecia votasse no? In quel caso ci troveremmo su un terreno spaventoso e sconosciuto. La Grecia potrebbe abbandonare l’euro, con conseguenze immensamente destabilizzanti nel breve periodo. Tuttavia il “no”, oltre a minare l’autocompiacimento delle élite europee, fornirebbe alla Grecia anche l’opportunità di un’autentica ripresa. In altre parole, temere le conseguenze di un “no” è ragionevole, perché non si può prevedere cosa accadrebbe dopo. Ma le conseguenze della vittoria del “sì” dovrebbero spaventarci ancora di più.

© The New York Times la Repubblica (Traduzione di Marzia Porta)

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