Una targa a Buoncammino [di Carlo Arthemalle]

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La discussione su Lettera a Fannìa di Salvatore Mannironi, quinto appuntamento del progetto Alla ricerca della storia perduta del FAI della Sardegna, ha dato il pretesto a Cagliari, nei giorni scorsi, di aprire un interessante dibattito sugli intellettuali nuoresi del secolo scorso, sulla struttura sociale, sui paesaggi culturali e geografici che li hanno espressi. Il dibattito si è concentrato in particolare sulla figura di Salvatore Mannironi in quanto autore del libro, pubblicato quasi trenta anni orsono, e figura di riferimento, per molti decenni, delle forze migliori, di parte cattolica, che quel territorio ha espresso.

Salvatore Mannironi merita per intero il rispetto di cui è circondata la sua figura per l’opera svolta nell’ Assemblea Costituente, per la lunga attività parlamentare e per la probità esercitata come avvocato. Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti del fascismo l’intellettuale nuorese è stato di grande coerenza a differenza dei tanti che hanno risolto il conflitto con la propria coscienza scegliendo il silenzio e mettendosi al sicuro. Mannironi si è esposto, scrivendo sulla stampa cattolica, coltivando rapporti con altri antifascisti e venendo infine arrestato con l’accusa di reati gravissimi e rinchiuso in varie carceri italiane.

Al FAI che ha avuto il merito di aver aperto alla comunità regionale per ben due volte, in occasione delle Giornate FAI di Primavera e della Festa di sant’Efisio, l’ex carcere di Buoncammino, ormai dismesso come luogo di pena, è stato proposto di eleggere quell’edifico a luogo emblematico della nostra memoria, per ricordare il sacrificio di quanti si batterono per la libertà e la democrazia. Fra quelle mura, infatti, furono ristretti anche Emilio Lussu e tanti altri antifascisti, insieme, naturalmente, a detenuti comuni.

Ma Buoncammino è stato utilizzato come carcere politico anche dopo la conquista della Repubblica e della Costituzione per ospitare i cittadini che venivano arrestati a seguito di manifestazioni sociali e civili. Anton Francesco Branca, Sebastiano Dessanay, Alfredo Torrente e Achille Prevosto erano in galera quando, nel maggio del 1950, si celebrò il Congresso del popolo sardo che diede il via al Movimento per la Rinascita. Facevano loro compagnia, in quella e in tante altre carceri della Sardegna, centinaia di giovani, braccianti e contadini poveri, uomini e donne, rei di aver invaso i terreni incolti del demanio e degli agrari assenteisti, avanzando addirittura la pretesa di volerci lavorare, su quelle terre.

La questione della terra ha influenzato il Novecento in Sardegna, prima durante e dopo il fascismo. A metà del secolo scorso la grande proprietà assenteista aveva ancora la forza di condizionare chi stava al governo della Regione e i magistrati, che erano in buona parte figli di proprietari terrieri, erano prodighi nel distribuire galera a chi attentava gli interessi della casta da cui provenivano. Bisognò attendere gli anni sessanta e gli stravolgimenti apportati dall’industrializzazione e dall’emigrazione per vedere cambiare le cose.

Forze nuove arrivarono alla guida del partito che governava la Regione, la magistratura iniziò a rinnovare i propri organici e arrivò anche una legge che, regolando gli affitti agrari, cancellò la grande proprietà terriera sia come forza economica che come forza politica. Anche i braccianti e i contadini poveri che avevano dato vita al movimento di occupazione delle terre cominciarono a perdere consistenza, come numero e come peso politico. La visione di una Sardegna che si modificava partendo dall’agricoltura era stata sconfitta e ora quasi tutti guardavano in altra direzione, eccitati e sedotti da una promessa di futuro fatta di poli industriali e di terziario più o meno avanzato. I nostri campesinos avevano dato un contributo e ora venivano messi alla porta.

Dal secondo dopoguerra sono passati oltre sessanta anni e noi, oggi, dovremmo essere in grado di giudicare se una targa affissa sulle mura esterne di Buoncammino debba contenere solo i nomi di quelli che furono messi lì dentro perché combattevano il fascismo o anche di quelli che furono arrestati per aver invaso, con aratri e bandiere rosse, le terre incolte degli ultimi feudatari. Mi sembra che la risposta giusta sia la seconda.

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