L’Europa ha garantito la pace finché non abbiamo iniziato a costruirla sul serio [di Adriano Bomboi]
Idealizzare un amore è pur sempre un esercizio sentimentale, ma tradurlo in pratica è tutt’altra cosa. Esistono relazioni di successo e relazioni che non funzionano e non avrebbero mai potuto funzionare. Il sogno europeo rientra in quest’ultima categoria? “L’Europa ha garantito la pace”. E’ l’affermazione più diffusa nell’odierno dibattito politico europeista. L’Europa unita avrebbe tutelato il vecchio continente dai sanguinosi nazionalismi terminati con la seconda guerra mondiale. Per gli storici invece esistono ben quattro fattori che avrebbero determinato la stabilità del continente nell’arco degli ultimi settant’anni, e in nessuno di questi compare il sogno europeo nei termini in cui lo intendiamo oggi: 1) la fase di ricostruzione politica dei Paesi distrutti dalla guerra aveva graziato – non i vertici – ma gli apparati organizzativi dei vecchi regimi che avevano concorso all’instabilità generale, inglobandoli nei nuovi sistemi democratici dell’Europa occidentale. Il fine era quello di garantire l’efficacia del processo di transizione. In Giappone si andò persino oltre, salvaguardando, non solo l’istituzione imperiale del Paese ma lo stesso sovrano Hirohito che ne deteneva la carica. In Spagna, Portogallo, e successivamente in Grecia, i regimi fascisti diventarono alleati dell’occidente nella controversa opera di contenimento del socialismo, e dell’influenza dell’ex Unione Sovietica. In Italia invece l’avvento della Corte Costituzionale servì, non solo ad evitare lo sfaldamento dello Stato, ma anche ad uniformare e riformare un diritto che non si riteneva opportuno lasciare all’interpretazione di un tessuto giudiziario derivante dall’epoca fascista. 2) il “Piano Marshall”, cioè gli aiuti economici forniti dagli Stati Uniti all’Europa nell’immediato dopoguerra, ebbero il triplice intento di rilanciare istituzioni che avrebbero concorso a sviluppare una rete di solidarietà inter-atlantica nell’emisfero occidentale (ecco perché a posteriori fu la NATO, più che l’Europa, la pietra angolare del nuovo ordine geopolitico dell’epoca). Gli aiuti consentirono inoltre all’Europa di rimettere in moto le manifatture e l’industria pesante del vecchio continente, in particolare della Germania, luogo simbolico di confronto con l’est, amministrato dall’Unione Sovietica. Infine, ciò consentì la costruzione di un rinnovato mercato economico fra le due sponde dell’Atlantico, di cui sia gli USA e sia gli europei avevano bisogno. 3) il welfare, perché con la fine della guerra si passò al cosiddetto “ordine pubblico economico”, cioè lo “Stato sociale”. A differenza degli ordinamenti prebellici, i nuovi Stati democratici estesero il loro interventismo economico non solo alla tutela della dimensione privata ma soprattutto a quella della sfera collettiva. L’uso della spesa pubblica in ambito sussidiarista e della programmazione economica determinò un incremento dell’indebitamento tale da comportare sia aspetti positivi che negativi. Da un lato l’illusione di una sanità, di una istruzione e di un diritto sindacale equanime per tutti, che così allontanò eventuali nuove tensioni sociali; dall’altro lato si determinò l’esplosione dei debiti pubblici occidentali. Accompagnati da privilegi e corruzione, dove l’élite trovò più comodo sviluppare tutele corporativistiche basandosi sul proprio grado di adesione al sistema politico e burocratico dei rispettivi Paesi di appartenenza. Dunque perché tornare all’epoca della paura e della violenza quando si era ottenuta la percezione del benessere diffuso? 4) la rigidità costituzionale, perché la fine della Repubblica di Weimar e il destino dello Statuto Albertino avevano insegnato ai giuristi ed ai politici europei che non si poteva tornare a costituzioni flessibili che potevano essere modificate per trasformare lo Stato in una dittatura (sia Mussolini che Hitler perseguirono analoghi percorsi istituzionali per riformare dall’interno le istituzioni dei loro Paesi). Anche in Italia nacque così nel 1948 una Costituzione rigida e dotata di una giustizia costituzionale deputata alla sua tutela. Si è giunti così anche al paradosso per cui, come fece notare Hoppe, oggi abbiamo addirittura monarchie più aperte al riconoscimento della minoranze nazionali europee rispetto alle repubbliche d’Europa. Non a caso, il Regno Unito ha consentito agli scozzesi di tenere un proprio referendum sull’indipendenza, sotto la neutralità di una Corona che tutt’ora legittima l’indipendenza dei paesi del Commonwealth, mentre la Repubblica italiana vieta direttamente, tramite Costituzione, qualsiasi tentativo di secessione. In Spagna, nonostante analogo limite costituzionale ed in presenza dell’istituto monarchico, la Costituzione assegna alle minoranze nazionali del paese maggiori poteri amministrativi di quelli riconosciuti da Roma al regionalismo italiano. Il Principato del Liechtenstein ha invece costituzionalizzato il diritto di secessione. Che dire? Mentre Altiero Spinelli ed i vari statisti europei procedevano nella promozione dell’ideologia di una edificazione europea, i quattro punti sopra esposti allontanavano dall’Europa gli antichi spettri della guerra, che si manifestava ormai solo ai confini od in altre regioni del globo. La realtà fu che la CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio istituita nel 1951, si risolse unicamente in meri accordi commerciali inter partes tra pochi Stati (6), ed in cui l’Italia, ad esempio, ebbe un ruolo più simbolico che pratico (l’Inghilterra non vi prese parte). Nelle cancellerie inglesi degli anni Sessanta la neonata Comunità Europea veniva già interpretata come uno spazio velleitario in cui spedire politici ormai trombati nei loro consessi nazionali, e solo dal 1979 l’istituto del Parlamento Europeo divenne direttamente eleggibile dai cittadini europei. L’ultimo concreto tassello che organizza ed espande decenni di istituzioni europee è rappresentato dal Trattato di Lisbona del 2007. Con esso si concretizza l’edificazione politica e amministrativa dell’Unione Europea, dopo che i Trattati di Amsterdam (1997) e di Nizza (2001), avevano aggiunto una robusta dimensione politica alla sola prospettiva monetaria maturata con Maastricht ’92. Verosimilmente, in ambito democratico, l’ultimo passo da compiere rimarrebbe l’elezione diretta del presidente della Commissione Europea, che rappresenta il potere esecutivo dell’UE, da parte dei cittadini. Eppure, adesso che l’euro sognato da Spinelli è nelle tasche di milioni di individui, non tutti paiono esserne entusiasti. Né è ancora possibile vedere all’orizzonte un barlume di politica estera unitaria, sul modello statunitense. Che conclusioni finali potremmo trarne? La gestione di una moneta unica, per quanto politica, risponderà sempre e comunque a logiche di natura contabile. Oggi l’Europa è divisa tra chi ritiene che l’euro debba essere una grande lira oppure un grande marco. Cioè tra chi ritiene che l’euro debba avere una maggiore funzione sussidiarista, e tra chi ritiene che l’euro dovrebbe attenersi ai trattati che ne assicuravano la sua adozione e la sua tenuta: entrambe posizioni comprensibili, ma che hanno inevitabilmente attivato dibattiti su speculazioni politico-finanziarie e considerazioni sulla liceità degli aiuti alle aree meno produttive dell’Europa. La fallacia del sogno europeo consiste nel seguire ad oltranza la politica di Federico II° di Prussia, e si basa sul mito del verticalismo istituzionale. Cioè l’idea che se si è Paesi piccoli non si potrebbe competere coi grandi. Federico, trovatosi a capo di una serie di principati stretti nella morsa della Francia, degli zar e degli Asburgo, ritenne opportuno sviluppare una poderosa macchina militare, con un efficiente Stato di polizia che ne garantisse la coesione e l’espansione. Oggi si ritiene che un’Europa forte debba economicamente bilanciare Cina e USA, mentre ieri come oggi istituzioni minori come quelle svizzere permangono ai vertici del benessere internazionale. Probabilmente dovremmo abbandonare il mito degli “Stati Uniti d’Europa”, dotati di un vertice monocratico, e occuparci seriamente di una Confederazione Europea di Popoli Sovrani. D’altronde, se i sardi non riescono a farsi rappresentare da un governo eletto a Roma, non ci sono ragioni per cui dovrebbe accadere di meglio se il governo si trovasse a Bruxelles.
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Bomboi ha ragione. Per ora, la luminosa visione spinelliana di federazione europea pienamente statuale non ha alcuna possibilità di realizzazione. Il grande clamore suscitato dalla crisi greca – crisi dell’euro, moneta che 18 paesi europei si sono data come significativo passo in avanti della loro unione – significa senza dubbio che la crisi non è solo greca ma europea e che essa per la prima volta mette una seria ipoteca al sogno di Spinelli. Tutto sommato, malgrado il pessimismo di Adriano Bomboi, questo non mi pare faccia piacere all’europeo medio, il quale vorrebbe salvare l’euro per salvare l’Europa. Come fare ? Una moneta comune a paesi sovrani non può non sottostare alle note regole del pareggio di bilancio e di riduzione di un eccesso di debito pubblico. Il fatto che in Italia la prima regola sia addirittura legge costituzionale significa pur qualcosa. Però non basta, e c’è Jacques Attali, noto economista francese di fede europeista, che suggerisce lo sviluppo congiunto di un’unione fiscale e di bilancio nella zona euro di cui il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) potrebbe costituire il primo livello di controllo e di proposta.