Necrologi [di Francesca Gallus]

l'amante

Alle 15,15 di venerdì, quarto giorno della sua vedovanza, alzatasi dalla tavola alla quale aveva trascorso almeno quaranta minuti spostando il cibo da una parte all’altra dei piatti che le venivano serviti, Emilia ReBarbaro aprì il giornale. Le cognate, silenziose e sollecite, sparecchiavano e rigovernavano velocemente, occhieggiando a turno la poltrona su cui Emilia sedeva, leggendo assorta. Lei, coi nervi tesi, un sasso nello stomaco, fingeva di non badarci, ma sentiva ogni loro gesto come uno spillo nella carne.

Emilia detestava le sue due cognate, e le detestava in primo luogo a causa della loro bontà e della loro sollecitudine inossidabili. Aveva assistito già parecchie volte alla rappresentazione dell’assistenza alla vedova, uno dei loro cavalli di battaglia, sempre con fastidio e crescente irritazione, e ora che ne era la vittima l’irritazione era talmente forte da soffocare il dolore per la recente perdita e lo strazio dei primi giorni del lutto.

Il marito di Emilia, Ferdinando, il fratello minore, protetto e adorato dalle sorelle e dai genitori, era scappato dalla famiglia per stabilirsi a più di cinquecento chilometri di distanza. Solitario, irascibile, laconico, aveva trovato la sua strada, dopo l’università, nella ricerca e nello studio della letteratura contemporanea. Questo gli permetteva una vita ritirata e casalinga, interrotta solo, ai cambi di stagione, da qualche congresso o dalla presentazione del suo ultimo saggio critico sul novecento.

Emilia, adolescente svogliata e malmostosa, conosciutolo ai tempi in cui entrambi studiavano ancora, aveva deciso di prenderselo, per non doversi dare troppo disturbo in conquiste più ambiziose, ed in previsione della vita piatta e priva dell’impiccio di passioni e cambiamenti che intravedeva nello sguardo onesto ma spento di lui. Aspettarono che lui si laureasse e che il suo professore gli offrisse un dottorato con borsa di studio per celebrare il matrimonio. Erano tempi in cui una famiglia introdotta come quella di lei non aveva difficoltà a procurare un impiego ad una figlia mal sposata e di scarse qualità. Un diploma, allora, aveva ancora qualche valore, e la parola dell’amico commissario di prefettura un grande peso.

La scarsa fatica del lavoro permetteva ad Emilia di godersi i pomeriggi di libertà come se fosse stata ancora ragazza, il disinteresse di Ferdinando per gli svaghi la lasciava completamente padrona del proprio tempo. Alle faccende domestiche provvedeva la signora Maria, tre volte alla settimana, dietro un compenso la cui entità era ignorata dai due sposi, essendo completamente a carico del padre di lei.

Anche dopo il matrimonio i genitori di Emilia mantennero con lei lo stesso rapporto di sempre: pagavano la maggior parte dei suoi conti, la metà delle sue vacanze e qualunque abito o accessorio la figlia desiderasse. Questo permetteva ad Emilia di risparmiare mensilmente una parte cospicua del proprio stipendio, che utilizzò, all’insaputa del marito e dei genitori, per investimenti di qualche rilievo, grazie ai quali, in pochi anni, si mise al sicuro da qualunque rovescio di fortuna.

Emilia aveva mantenuto il fisico asciutto della giovinezza, al contrario della maggior parte delle sue coetanee che con gli anni e le gravidanze si erano appesantite e lasciate andare. L’età le aveva solo arrotondato le forme, ammorbidendone in modo molto piacevole la figura. Il merito principale della sua forma fisica era da attribuirsi alla sua scarsa attitudine per l’arte culinaria. Era tale il suo disamore per la cucina che si limitava a cuocere per mezzogiorno un piatto di pasta in bianco e una fettina in padella e alla sera portava in tavola gli avanzi del pranzo e qualche frutto. Così la sua bellezza, modesta da ragazza a causa di una certa grossolanità dei tratti, ma illuminata da due occhi estremamente espressivi, era cresciuta con gli anni, trasformandola in una donna notevole.

Emilia non aveva interesse per le avventure e, nonostante nel corso degli anni fosse stata corteggiata, anche con qualche insistenza, sia da colleghi di lavoro che dai mariti delle sue care amiche, aveva sempre mantenuto la sua cristallina fedeltà coniugale. La sua freddezza e la sua celebre incorruttibilità, ancor più del suo aspetto attraente, ne fecero, per un lasso di tempo piuttosto lungo, la regina delle fantasie che riscaldavano il talamo dei suoi conoscenti, aiutando molti mariti a compiere fino in fondo il loro spesso ingrato dovere.

Ma, di contro, il suo carattere poco passionale e la disaffezione del marito per le faccende del sesso resero ben presto casto il loro matrimonio sterile. Senza le complicazioni dei figli la vita poté scorrere sempre uguale, non scandita dai riti di passaggio, dalle metamorfosi, dalle tempeste ormonali che gli umani in crescita portano con sé. L’armonia della coppia era esemplare e per le amiche di Emilia costituiva motivo di invidie e di recriminazioni nei litigi ricorrenti coi propri mariti.

In realtà ben poche fra loro avrebbero potuto sopportare i silenzi estenuanti di Ferdinando, che, muto a volte per giorni interi, non rispondeva mai alle domande dirette della moglie, nemmeno a quelle che costituiscono il minimo necessario scambio di informazioni fra coloro che condividono lo stesso spazio abitativo.

Peraltro non ci volle moltissimo tempo perché fra i due l’unico dialogo fosse quella specie di avviso ai naviganti che Emilia si incaricava di fornire a intervalli regolari, vivacizzandolo talvolta con un pleonastico tono interrogativo.“Ho comprato un dentifricio nuovo, lo trovi meglio dell’altro?”; “Giorgio e Daria ci hanno invitato a cena per domani, ho detto di si. Ti fa piacere?”.

Si comprava poi la marca di dentifricio che capitava, il vecchio tipo, il nuovo, un altro, perché comunque Ferdinando non avrebbe mai espresso alcuna preferenza in proposito, e si andava a cena da Giorgio e Daria, o da Franco e Mariella, o Luigi e Gianna o chiunque comunque li invitasse, e si ricevevano gli stessi, successivamente, per dovere d’ospitalità, senza che mai nessuna obiezione, ma nemmeno alcun moto d’approvazione, meno che mai di gradimento o d’entusiasmo, sfuggisse dalle labbra di Ferdinando.

L’indifferenza di Ferdinando aveva delle brusche interruzioni, imprevedibili, quando qualcosa disturbava il suo ordine e le sue abitudini o non corrispondeva alle sue esigenze, che era abituato a vedere soddisfatte con la massima sollecitudine. Aveva allora scoppi d’ira e accessi di rabbia incontrollata. La sua voce, così scarsamente esercitata, suonava potente e rimbombante come non si sarebbe mai detto possibile, e, in pochi minuti insolentiva e mortificava con violenza e volgarità. La signora Maria, bovina nel fisico e nel carattere, subiva con la testa china e le lacrime agli occhi gli insulti causati da un colletto mal stirato o dal disordine in un cassetto della biancheria.

Emilia, dapprima spinta dal suo carattere alla ribellione ed alla lotta, aveva poi ripiegato su una reazione più mite. Rispondere o reagire provocava infatti una furia incontrollabile nel marito, che lo scatenava, paonazzo e scomposto, in azioni distruttive e in aggressioni fisiche. Dopo aver ricevuto alcuni pugni alla cassa toracica e alla schiena ed essere stata bersaglio di oggetti tirati con forza, Emilia si risolse a tacere; dritta e fiera lo guardava con il disprezzo e la commiserazione nei suoi bellissimi occhi.Dopo, il silenzio regnava per qualche giorno fra loro, Emilia, offesa, preferendo non rivolgergli per niente la parola.

Con gli anni anche queste manifestazioni si erano attenuate, un po’ perché la signora Maria e la stessa Emilia avevano acquisito, come un automatismo, i gesti necessari a soddisfare i rituali di Ferdinando, un po’ perché l’aggressività è uno slancio proprio della giovinezza, e non si addice all’età matura. Nell’età matura Emilia e Ferdinando avevano iniziato ad entrare precocemente, pian piano abituandosi alla sua lentezza ed alla sua monotonia, quando anche il loro giro di amicizie comuni si era sfaldato dolcemente, nell’impossibilità di comprendere, gli uni e gli altri, la differenza fra il tempo di una coppia e quello di due genitori.

Emilia criticava le sue amiche assorbite da ritmi per lei incomprensibili, che, sprecato il pomeriggio ad accompagnare ed andare a riprendere i marmocchi, alle feste, a ginnastica, a studiare dagli amici, o a seguirli nei compiti a casa, non erano più disponibili per una partita di carte o per un tè, ma neanche per una cena a casa o fuori, dicendosi sfinite dalla giornata e terrorizzate all’idea di iniziare troppo stanche l’indomani.Così da ormai molti anni la vita di Ferdinando ed Emilia era ridotta a non più che questo: lei si alzava presto, metteva in tavola una sciatta colazione di caffè e biscotti secchi, e, vestita e lavata in poco tempo, andava al lavoro mentre lui, ancora in pigiama, finiva di mangiare.

Per lo più Ferdinando stava in casa anche al mattino, ma alcune volte alla settimana andava a piedi all’università, dove teneva un corso, molto rinomato in tutto l’ambiente accademico. Non era raro che studenti di altre sedi o giovani già laureati venissero apposta in città per il tempo necessario a seguire il suo corso annuale. Le lezioni, affollate e faticose, lo mettevano di un umore irritabile. Nei giorni liberi Ferdinando stava a tavolino mattina e pomeriggio, la porta a vetri smerigliati dello studio chiusa, a leggere, scrivere e studiare.

I pomeriggi dopo le lezioni riposava sino alle cinque, alzatosi dal letto prendeva un caffè, in piedi, davanti ai fornelli, e per il resto della giornata si dedicava alla corrispondenza copiosissima che intratteneva con altri studiosi, con importanti istituti anche esteri e con i periodici presso i quali pubblicava rubriche sapide e salaci, graditissime dal pubblico. Alla sera, dopocena, si sedevano insieme nel salotto, lei a guardare un programma qualunque alla televisione, lui a terminare qualche lettura. Le vacanze le passavano insieme: in qualche paese di montagna per i primi quindici giorni, nella casa al mare dei genitori di lui, con le sorelle sempre in agitazione ed in sollecite premure, per la seconda quindicina. Viaggi pochi: in rare occasioni Emilia aveva accompagnato il marito ad un congresso, ma estenuata dai riti degli studiosi, vi aveva rinunciato presto. Grazie all’assenza della moglie lui poteva restare immerso nell’ambiente accademico senza alcuna distrazione.

Dopo trent’anni di matrimonio, dopo decenni di questa vita più che serena, senza alcun preavviso, senza un giorno di malattia, senza un addio, Ferdinando morì, la notte tra un lunedì ed un martedì. Svegliandosi la mattina Emilia lo vide un po’ diverso: la bocca aperta, gli occhi chiusi, le braccia lungo il corpo, nella compostezza che gli era abituale durante il sonno, ma comunque un po’ diverso. Cercò di riscuoterlo, dopo averlo chiamato a voce bassa, col solito tono, per dirgli di alzarsi, ma prima ancora di toccarlo il suo cuore sapeva che il marito non era più accanto a lei.

Andò in cucina, non si vestì, non chiamò al lavoro. Aspettò l’arrivo della figlia della signora Maria, Graziella, che già da molti anni aveva sostituito la madre a servizio, e solo allora pianse, chiamò le sorelle di Ferdinando, il medico, le pompe funebri. Aspettò l’arrivo delle cognate per preparare il necrologio e fare alcune telefonate che avrebbero permesso alla notizia di diffondersi com’era necessario, e da quel momento in poi non fece quasi più niente, non mangiò, non parlò, non aprì la porta alle visite ed entrò solo una volta nello studio, dove Ferdinando aspettava l’ora dei funerali, per distrazione, per abitudine.

Lesse il giornale però, avidamente, e l’orgoglio di vedere le pagine dei necrologi occupate per intero dal nome del marito le rese più dolce il dolore dell’assenza. Mercoledì gli annunci della famiglia, gli amici più cari, i collaboratori dell’università, gli studenti e gli ex studenti, i colleghi di lavoro di lei, i politici locali. Giovedì, dopo i funerali, la chiesa affollatissima, trovò stampate le partecipazioni dei colleghi delle riviste e delle case editrici, i capi dipartimento di tutte le università, intellettuali di ogni campo, rappresentanti del governo e politici di ogni schieramento.

Il venerdì fu il primo giorno vero di lutto, dopo lo stordimento delle visite e dei preparativi. Mentre Graziella e le cognate mettevano ordine un po’ ovunque, riservandosi ancora di toccare gli armadi e la scrivania, Emilia le seguiva, vaga, senza collaborare e senza protestare se decidevano di spostare un oggetto, di regalare dei fiori, di buttare nella spazzatura tutti gli oggetti da toeletta che trovavano nel bagno. Guardava questa attività come se non la riguardasse, come se si trovasse ad una grande distanza e chissà perché le arrivassero alla retina le immagini di queste donne operose.

La sua irritazione era sopita finché era presente Graziella, alla quale da anni si affidava per ogni minima decisione pratica. Le vide cucinare, portare in tavola e, quando Graziella salutò, si sedette a tavola. Allora la prese l’angoscia della solitudine, la rabbia contro queste vestali ammuffite, così amorevoli, che l’avrebbero lasciata sola senza scrupoli, tornando alla loro vita immutabile. Iniziava a farsi largo nella sua coscienza e nel suo cuore il reale significato della perdita, ma lei non era ancora pronta a capirlo, e ricacciava indietro queste sensazioni, trasformandole in irritazione e disprezzo per le sorelle del marito, perché, almeno, questi, erano sentimenti che le erano noti.

Fu così, per consolarsi, per vedere ancora il nome del marito unito al suo nel cordoglio generale, che prese in mano il giornale, anche se sapeva che oramai quasi tutti quelli che dovevano avevano espresso la loro partecipazione, con gli annunci o con biglietti e telegrammi. Aprì dunque il giornale, direttamente alle pagine dei necrologi. Non vide subito il nome del marito, in mezzo a tutti quegli sconosciuti sfortunati e a tante ignote famiglie in lacrime. Non lo vide perché l’annuncio era unico, minuscolo in mezzo a tanti, ma senza capire lesse:

“Renata piange, inconsolabile, la perdita improvvisa del suo

                                                            Ferdinando

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