Solo dal seme della tolleranza i buoni frutti [di Raffaele Deidda]
Balcani. Sembra così lontano il 24 marzo 1999, quando i bombardieri della Nato colpirono i primi obiettivi serbi a Pristina, Pogdorica e a Belgrado, con la missione di fermare la pulizia etnica di Slobodan Milosevic nella regione a maggioranza albanese. L’Italia partecipò alla guerra del Kosovo. Al governo il centrosinistra con Massimo D’Alema presidente del Consiglio. Ebbe il sostegno dell’opposizione guidata da Berlusconi. La guerra, secondo Bill Clinton e il suo segretario di Stato Madeleine Albright, sarebbe stata “lampo”: due giornate di bombardamenti per far ritirare i serbi. Così non fu e i bombardamenti Nato causarono la morte di molti civili. Il popolo italiano di sinistra era insofferente. Sui muri si leggeva “D’Alema boia”. Dieci anni dopo Massimo d’Alema dirà in un’intervista: “Il popolo di sinistra non è in massa pacifista come spesso si vuole far credere. Ha sostenuto molte guerre che ha ritenuto giuste, e che talvolta non lo erano nemmeno”. Chi visita oggi il Kosovo, evitando le zone dove è presente l’UCK, organizzazione paramilitare e terroristica, rileva apparente tranquillità, con le città animate da giovani che sembrano ignorare o aver dimenticato una guerra che ha prodotto devastazioni materiali e morali. Le moschee, le chiese cattoliche e ortodosse sembrano convivere. Eppure è nota l’esistenza di una rete di islamisti radicali e terroristi, molti dei quali coinvolti nei conflitti in Siria e Iraq. E’ forte il sospetto dell’ esistenza di campi di addestramento in Kosovo e sono frequenti scritte inneggianti all’ISIS e all’UCK. Senza il presidio del KFOR, forza internazionale della NATO per garantire l’ordine e la pace, il Kossovo sarebbe teatro di scontri, di faide e di massacri fra kosovari di origine albanese, prevalentemente musulmani, e kosovari cristiano-ortodossi di origine serba. La maggioranza albanese musulmana ha costretto la minoranza serba-ortodossa a espatriare, espropriandola dei propri beni. I serbi rimasti vivono in condizioni di disagio e povertà: a Prizern, degli oltre 25.000 prima della guerra, ne sono rimasti 25. Gli estremisti islamici, oltre ad aver attuato la pulizia etnica, vorrebbero cancellare monumenti, chiese e monasteri che testimoniano la presenza serba in quei territori. Se venissero rimossi i check point nei luoghi di culto ortodossi, verrebbero distrutti. Perciò i rappresentanti della KFOR non intendono lasciare quei territori finché non saranno ristabilite normali condizioni di vita, senza discriminazioni di nazionalità o di religione, in un Kosovo multietnico e democratico. Lo auspicano i monaci del monastero di Visoki Dečani del 1327, dal 2004 patrimonio dell’Unesco per gli affreschi del XIV secolo, l’iconostasi in legno originale, il trono degli egumeni ed il sarcofago intagliato del re Stefan. I religiosi hanno svolto un ruolo umanitario durante la guerra, salvando molti albanesi del Kosovo. Eppure ancora oggi devono vivere sotto la protezione della NATO e non hanno libertà di movimento. Non cessano infatti gli episodi d’intolleranza con scritte e aggressioni che testimoniano il rischio, se cessa l’attenzione dell’Occidente, che accada per Visoki Dečani ciò che sta accadendo nelle zone controllate dall’ISIS. Un Kosovo multietnico, democratico e senza discriminazioni, si può costruire con la vigilanza dell’occidente, in particolare dell’Italia, e dei mezzi di comunicazione che seminino tolleranza. Per sconfiggere l’odio che le nuove generazioni, nate dopo la guerra, rifiutano. * Foto: Monastero di Visoki Dečani, patrimonio Unesco. Fondato dal re serbo Stefano Dečanski nel 1327, é situato a 12 chilometri a sud della città di Peć. Al suo interno si trova la più grande chiesa medievale dei Balcani con il più grande affresco bizantino conservatosi fino ai giorni nostri. |
Una buona azione della Regione Sardegna. Parliamo del 1999 – 2000. E’ presente in Kosovo un Reggimento della Brigata Sassari, il 151° Fanteria di stanza a Cagliari. Viene segnalato da quel Comando alla Regione il problema dell’approvvigionamento idrico dell’enclave serba del villaggio di Gorasdevatz, distante circa una quindicina di chilometri dal capoluogo del Distretto Nord-Ovest, Pec-Peja, a seconda della lingua utilizzata. Problema di non poco conto, in quanto riguardava la possibilità di approvvigionamento del villaggio, 1200 abitanti, senza sabotaggi, allora molto frequenti. I militari venivano spesso chiamati a ripristinare la condotta dell’acquedotto che da Pec portava l’acqua al villaggio. Rotta spesso in più punti, o con le manovre danneggiate. La Regione incarica il suo Ente strumentale, l’Ente Autonomo del Flumendosa, che aveva già operato in area di guerra in Bosnia per realizzare un impianto di potabilizzazione a Pale, Repubblica serba di Bosnia. I tecnici, durante il primo sopralluogo, si rendono conto della potenziale pericolosità dei sabotaggi. Infatti, con una linea di trasporto idrico facilmente aggredibile, l’immissione di sostanze tossiche era un gioco da ragazzi. Per cui studiano un impianto di filtrazione capace di bloccare sostanze tossiche e dotano lo stesso impianto di sensori di segnalazione, capaci anche di comandare il blocco dell’impianto in caso di presenza di tossine. In due mesi, progetto e gara d’appalto sono pronti, in altri quattro mesi la ditta appaltatrice realizza l’impianto. Trasporto in Kosovo, via Montenegro; il montaggio, sotto la direzione dei tecnici dell’EAF e in circa 10 giorni l’impianto entra in funzione. Mi risulta che sia ancora operativo. Quando motivati i dipendenti pubblici sanno dare veramente il meglio di se stessi e in quella ed in molte altre azioni di cooperazione internazionale quei tecnici hanno dimostrato di saper operare, anche a rischio della vita, per contribuire a far sviluppare il seme della tolleranza. Una chiosa. Nel periodo del montaggio dell’impianto, quasi tutte le sere, all’imbrunire cominciavano sparatorie dalla parte albanese verso il villaggio. Il passaggio nello stretto corridoio verso Pec-Peja avveniva per fortuna nei blindati della Brigata Sassari.