La fine dell’indipendentismo? [di Alessandro Mongili]
Ci sono vicende che segnano, o illuminano, intere fasi politiche. Fra di esse, la dadaista vicenda del sindaco andata/ritorno Delunas sicuramente impressiona, diverte, e insieme deprime. Impressiona per la cecità di questi politici sardi. Diverte perché aggiunge una nota di grottesco e di ubuesco alle solite squallide menate della politica sarda. Deprime perché non si vede alcuna alternativa, non solo a Cuartu Sant’Aleni/Quartu Sant’Elena, ma in tutta l’Isola. Sgovernata in modi subprefettizi e inefficaci dall’agGiunta Pigliaru-Paci, appena distinguibile dalla precedente (stessi consulenti ora assessori, stesse idee, stesso disprezzo per i Sardi, stessa subalternità ai poteri esterni), la Sardegna assiste sgomenta al suo saccheggio e alla sua svendita al miglior offerente. In tanti non abbiamo dato più fiducia alle forze politiche che, all’interno di un indimenticato clima da suburra politica, hanno partorito questa agGiunta dei sottoprefetti formata ai miti della modernizzazione tzeraca e dell’economicismo conformista. In molti abbiamo lavorato alla ricerca di alternative politiche. Su questo percorso abbiamo incontrato una vivace tendenza indipendentista che, in Sardegna, ha osato per anni porre i nostri problemi di dipendenza al centro della propria agenda. In questo momento possiamo dire che questo incontro non si sta rivelando molto fruttuoso. Esiste un’impasse pericolosa. Questo a causa della crisi quasi mortale che ha colpito l’indipendentismo (come cultura e pratica politica) nel suo momento di passaggio da una rete di piccoli gruppi alla scoperta di avere, di poter avere, un consenso elettorale, e dunque di doversi dotare di un’organizzazione meno personalistica, per poter sviluppare una leadership politica rivolta all’insieme della società sarda. Una parte dell’indipendentismo, ricordiamolo, ha cercato di influenzare l’agenda politica e la composizione del gruppo ora al potere. La vicenda del c.d. sovranismo sardo è cognata del sardo-fascismo e della subalternità sardista alla sinistra, e poi alla destra, nella costante illusione di poter moderare i baroni, senza passare dalla noiosa fase della creazione del consenso e del lavoro politico e culturale insieme. Essa ha prodotto esiti grotteschi su cui, per carità di patria, in tanti evitiamo di esprimerci. Un’altra parte ha cercato di costruire l’alternativa politica. Essa si è ritrovata davanti una legge elettorale degna di al-Sissi, ma anche ad alcuni propri limiti. Il primo è quello di non aver capito (nonostante l’esperienza grillina che, sotto questo aspetto, è significativa) che l’alternativa alla politica delle agGiunte e delle camarille non può essere solo ideologica o comunicativa, ma soprattutto organizzativa. Infatti, non basta la comunicazione intelligente, né le parole d’ordine che richiamano un’ideologia nazionalitaria (rigidamente in lingua italiana) per andare avanti, ma bisogna fare dei concreti passi indietro nel controllo delle dinamiche da piccolo gruppo di discepoli e amici per la pelle. Bisogna lavorare alla creazione di un’organizzazione politica che promuova il protagonismo, l’attivismo, e in un quadro democratico. Infatti, la politica dei piccoli gruppi va bene per testimoniare una fede, ma nelle sue dinamiche interne è omologa a quella delle camarille al potere, funziona anch’essa sulla base della fedeltà ai capi e capetti, e sulla cooptazione dei più fedeli. Dunque, è inefficace se la scala si fa più ampia. Ci vuole apertura e la forza di rimettersi in discussione, che è mancata. Ci vuole un superamento del minoritarismo che non c’è stato, ad esempio nell’apertura alle competenze su cui invece Pigliaru ha giocato con efficacia una partita elettorale (per poi, ovviamente, negarla nelle pratiche di governo). Il secondo è l’attuale tentativo di inserirsi in giochi politici locali che non sembrano avere alcun respiro significativo di medio e lungo periodo, cioè un tatticismo senza visione politica. Infine, la mancanza di una radicalità necessaria ad ogni innovazione, anche politica, puntando su programmi di cambiamento nelle politiche economiche e sociali, e di orientamento culturale. In particolare, l’insensibilità ai temi del reddito e del lavoro, e ai temi della politica linguistica, su cui molte forze e molte energie si sarebbero potute e si devono aggregare. Se l’interesse è quello di integrarsi nel ceto politico sardo e nelle sue pratiche, gli indipendentisti dovrebbero studiarsi i percorsi analoghi dei sardo-fascisti e del sardismo classico, che in ogni caso ha portato alla marginalità e alla sconfitta dei loro stessi promotori. Se l’interesse è quello di cambiare la cultura e le pratiche politiche della Sardegna, a me sembra che l’arroccamento ideologico e l’incapacità di fare passi indietro dei piccoli gruppi (e di aprirsi alle forze innovative presenti nella società sarda e nel disterru) contribuisca a segnare i prossimi anni come una fase di stagnazione politica e di assenza di cambiamento. Non si sente la necessità di nuove élite autopromossesi tali, ma di costruire reti eterogenee che generino azione politica innovativa e efficace a difesa dei nostri interessi. |
La profondità della ” riflessione” di Alessandro Mongili porta, noi sardisti, a riflettere sui tanti erori fatti, e molti volutamente per mero interesse di parrocchie personali. Inutile negarlo, perchè cosi è stato. L’aver abbandonato lo spirito con cui si viaggiava negli anni ’80 ha portato all’allontanamento delle forze giovani ed entusiaste che speravano in un domani diverso. De contras quello che abbiamo saputo fare è stato quello de sos linghiculos quando del nano di Arcore e quando dei mentecati della pseudo sinistra di quanti, oggi, son diventati piddini. La perdita di dignità e identità ha squalificato il partito stesso ma avvantaggiando chi se n’è impossessato. Oggi si tenta di cambiar strada con Giovanni Columbu, nonostante i tanti che non vogliono capire che, continuando cun sas cunterrias aintr’e omo, altro non fanno che indebolire ancor di più tutto il movimento indipendentista-separatista. Ioho la certezza che al nostro inetrno, e non parlo del solo partito sardo, ci siano menti illuminate che possono, e devono, dare il loro contributo perchè si avvii veramente quel cammino intrapreso dai catalani. Non basta battere le mani per i loro risultati, e ne basta partecipare a convegni con movimenti separatisti, siano essi catalani, baschi, scozzesi. Su FORTZA PARIS dei nostri nonni deve tornare d’attualità, ma in fase concreta e non folclorica. Non vorrei morire sotto bandiera corrotta dell’italico mafioso governo romano. Possiamo farcela.