Che Cagliari è, quella che pignora la tomba di suor Nicoli? [di Paolo Matta]
Se per un attimo, indugiando piacevolmente nei sogni della nostra infanzia, cedessimo alla tentazione di credere alle stelle cadenti, ebbene, non avremmo dubbi che una di loro sia planata nelle stradine della Marina. E abbia preso il nome e le sembianze di suor Giuseppina Nicoli. E da quel borgo antico del porto – seppure chiusa in modesto sepolcro – brilla ancora di luce propria, quella della carità che “tutto copre, tutto spera, tutto sopporta“. Ma Cagliari, anche e soprattutto la Cagliari cristiana – destino comune a innumerevoli comunità locali e non – soffre di memoria corta. D’altronde, per averne tacita e imbarazzante conferma, basta uscire di qualche metro quadro dalla antica Lapola per imbattersi, in quelle che sono le ultime propaggini di Stampace basso, nella tomba di una delle colonne del pensiero e della teologia universali: quell’Agostino di Ippona, vescovo africano, le cui spoglie una Sardegna ospitale e non pregiudizialmente ostile accolse e gelosamente custodì per oltre due secoli. Oggi, tomba vergognoso monumento all’oblio e a una colpevole ingratitudine. Al pari della sua chiesa nella Via Baylle. Proprio dove una città muta e sorda, dico anche quella dei laici illuminati oltre che dei devoti seguaci del Vangelo, accetta – in un’insopportabile e farisaica indifferenza – che una delle sue storiche e più meritorie istituzioni conosca l’onta dello sfratto e del pignoramento. Giunta per la seconda volta a Cagliari nel 1914, poco più che cinquantenne, si trovò – per dirla con le parole dello storico Paolo Fadda – «a tu per tu con la parte più debole e bisognosa della popolazione, scoprendo, giorno dopo giorno, le ferite ancor più gravi e segrete, quelle determinate dall’ignoranza e dalle miserie morali. Attorno a sé, nelle viuzze e negli slarghi del quartiere, si trovò a contatto con un mondo di famiglie che chiedevano e avevano bisogno d’aiuto». La beata Giuseppina, e con lei le “suorine dalla bianca cornetta” riuscirono a «inquadrare nell’esercito dei “marianelli” le centinaia di ragazzi di strada (is piccioccus de crobi) che la disgregazione sociale aveva lasciato senza guida e istruzione e a dare una formazione alle “zitine”, le numerose serbidoras (le colf di oggi) giunte a Cagliari, giovanissime, dal contado per andare al servizio delle famiglie benestanti. Era questa», scrive ancora Fadda «la risposta tutta vincenziana, impregnata di disponibilità e d’amore, per essere al fianco di chi era rimasto – per inerzie o incapacità della società del tempo – senza tutele». Tutto questo è racchiuso nella modesta urna sepolcrale di suor Nicoli, in via Baylle, quartiere Marina. Di quella comunità, poi fecondata ulteriormente dalla testimonianza esemplare di suor Tambelli, oggi restano cinque suore che tremano al pensiero di dover lasciare quelle mura, quella cappella, quella santa tomba. Che i cagliaritani, poco riconoscenti, stanno tumulando una seconda volta, nella loro corta memoria. |