Volkswagen, la caduta degli dei [di Marco d’Eramo]
MicroMega 23 settembre 2015. Lo so che è abietto e infantile, ma non è possibile non provare un piacere maligno di fronte al caso Volkswagen, le cui auto a motore diesel emettevano fino a 40 volte più emissioni di quello che appariva dai test, grazie a un software che avvertiva il motore quando un accertamento era condotto su di esso, per poi liberare le emissioni quando il test era finito. Sono anni che la Germania ce la mena con il rispetto delle regole, con il giocare corretto. Su un punto è sempre stata inflessibile, quasi teutonica: gli impegni presi vanno onorati, come i debiti vanno ripagati: in nome di questo principio, ha spillato i greci al muro come farfalle di un entomologo (e ha incassato svariate decine, se non centinaia di miliardi dai profitti sui differenziali dello spread con i vari paesi del sud Europa). E poi si scopre che la più grande industria tedesca fa ecologia creativa, proprio come i politici greci e italiani fanno “finanza creativa”: l’una nasconde le emissioni tossiche sotto il tappeto, come fanno gli altri con i debiti delle amministrazioni locali. E vai con il capitalismo renano e con l’ordo-liberismo e il rimettere in ordine casa propria. Senza parlare dello sfoggio persino imbarazzante di “tecnologia tedesca” qui e “tecnologia tedesca” là. Mancava solo che si vantassero della tecnologia tedesca per i calzini: certo è che se ne sono gloriati per un prodotto come lo shampoo: e non è un’esagerazione, vedi lo spot dello shampoo Alpecin in Gran Bretagna e in Italia, che ha lasciato interdetto anche il Financial Times. Ora scopriamo che il secchione della scuola truccava i compiti in classe, dopo aver sempre rifiutato di aiutare i compagni di banco meno dotati. Scopriamo che una delle industrie più potenti del mondo, e più avanzate, replicava con tecnologia sofisticata l’antico mestiere napoletano del pittore di pesci, l’artigiano che prima di esporre sul banco rionale la sua mercanzia ittica, dipingeva le branchie di rosso vivido e gli occhi di smalto brillante per far sembrare più freschi cefali e merluzzi. Esiste un termine tedesco che descrive in modo appropriato il piacere che tutti noi europei non possiamo non provare, ed è Schadenfreude. La gioia per il dispiacere altrui. Ma c’è anche un sentimento più sano. Ed è la vittoria del principio di realtà su ogni mito, su quello dell’invincibilità, quello della perfezione, quello dell’inappuntabile affidabilità. Sembrava troppo bello per essere vero, e infatti non lo era. Ma c’è un altro bagno di umiltà che è reso necessario da questa sporca storia, e riguarda la sensibilità ambientale dei vari continenti. Un bagno che riguarda tutti noi europei e non solo i tedeschi. Da decenni noi popoli del vecchio continente siamo stati portati a credere di essere i più sensibili all’ambiente, i più attenti ai pericoli ecologici, i più decisi nella lotta all’inquinamento, contro gli scialacquatori di energia (statunitensi), i drogati di carbone (cinesi) e i disboscatori di giungla (brasiliani). Prova di questo impegno naturale sarebbe la religiosa compunzione con cui ogni mattina differenziamo la nostra spazzatura, in un rito che ha preso il posto della lettura dei giornali in quella che Hegel considerava la devozione mattutina del borghese europeo. E invece la vera ragione per cui Volkswagen ha truccato i motori e ha rischiato il disastro che oggi si verifica puntualmente è che voleva esportare oltre Atlantico il modello “diesel” che prevale da noi. I tre quarti dei motori diesel mondiali circolano infatti in Europa provocando quella che l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale Usa) ha chiamato “la catastrofe sanitaria europea”. Non solo ma le emissioni dei motori diesel contribuiscono pesantemente allo smog, al cambiamento climatico, all’assottigliarsi dell’ozono. Se cominciassero a disinquinare a casa nostra? Dopo la parola tedesca Schadenfreude, in questa vicenda non poteva mancare un termine greco, ed è Nèmesi. Basta fare un po’ di conti: mentre scrivo, le azioni Volkswagen sono quotate 110 euro, mentre 52 settimane fa valevano 255 euro. Solo negli ultimi due giorni hanno perso il 30% del proprio valore (circa 15 miliardi di euro). Negli Usa VW dovrà ritirare 500.000 auto a un costo di 39.000 dollari l’una (quasi 20 miliardi di dollari in tutto) e molto probabilmente dovrà pagare una multa equivalente, portando le perdite immediate a circa 60miliardi di euro. Senza contare le perdite in prospettiva dovute al quasi certo crollo delle vendite mondiali e a agli altri ritiri che saranno richiesti da numerosi paesi: secondo le agenzie stampa, circolano nel mondo 11 milioni di veicoli Volkswagen (e della sua sottomarca Audi) identici a quelli messi sotto accusa negli Stati uniti. Contando tutti questi fattori insieme, nel medio termine, la perdita potrà sforare i 300 miliardi di euro, che provocherebbero una bancarotta immediata se non fossero ripianati. E chi sarà chiamato a ripianare questa voragine? Sarà certamente il contribuente tedesco che per l’Auto del popolo (questo significa Volkswagen) dovrà sborsare di tasca sua l’equivalente di quel che non ha voluto concedere per ripianare il debito greco: è qui che constatiamo la nemesi storica. Un’ulteriore circostanza rafforza il contrappasso. Ed è che i fondi che inevitabilmente dovranno essere scippati ai contribuenti tedeschi – ed europei – (“O la tassa o la vita”) potrebbero non servire a molto (proprio come nel caso greco), ove si rivelasse che simili trucchetti erano praticati anche da Daimler-Benz, da Bmw (e probabilmente da Peugeot, Renault, Fiat e gli altri grandi produttori europei). Dalla Schadenfreude, passando per la nèmesi, non si può che finire nella Götterdämmerung (il “crepuscolo degli dei”). |