Quando Gramsci non fu liberato storia politica di un fallimento [di Adriano Prosperi]
La Repubblica, 2 ottobre 2015. Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissim libro Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere. La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica. Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito. Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio. Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono. Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio. Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre. Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte. La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere. Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative — non richieste né desiderate — del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista. Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea. Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime. |