Il colore dell’acqua [di Giampaolo Cassitta]

goccia

Ho provato a cercare nella tavolozza dell’esistenza il colore dell’acqua. La immaginavo bianca, evanescente, limpida, chiara e fresca. Anche dolce. Come la poesia. E azzurra, celeste, verde smeraldo. E fresca, riposante, allettante. Avvolgente nel corpo e bellissima al tatto. Acqua che sgorga lentissima e pura dai monti a dimostrare la vita. Perché è da quelle parti che tutto nasce, tutto parte, tutto si modella. Dall’acqua. Acqua candore di ghiacciai perenni, onde spumose attrici di tramonti per gli innamorati, acqua abbraccio di seta tra la parentesi di una parola e un bacio. Ho provato a ripetermelo mentre i miei occhi osservavano acqua che sgorgava e scendeva e invadeva e camminava e, lentamente, molto lentamente, cambiava colore, azzannava lo spazio alla vita, ripercorreva argini antichi che noi avevamo coperto con le nostre cose, le nostre costruzioni, la nostra cocciutaggine di non rispettare la natura.

Lei ha il suo corso. Lo ha da millenni. Non possiamo spostare la strada costruita dagli dei, dal destino, dalla storia. Acqua cammina e divora, acqua non stagna ma ribolle. Acqua è un abbraccio mortale, una spirale che avvolge e miscela lacrime e fango. Acqua dal cielo e dalla terra, dal mare e dai fiumi, acqua che sbatte e schiaffeggia la vita e ci trova seduti, inermi, quasi in contemplazione, quasi a non voler capire, a non voler credere, a non poter condividere questo repentino cambiamento. Acqua scomparsa e riarsa, pozzo di vita e rivolo di morte, ci trasporti nell’affanno dell’attimo e non lasci lo spazio al capire quello che, intorno, si sta muovendo. Ed è forza ed è rabbia, è indifferenza e stupore, di acqua è cosparso il nostro corpo e di acqua si può morire. Acqua all’imbrunire in un giorno dove il sole non compare, dove i colori scompaiono, dove il mare ci abbandona e si mischia a quell’acqua cattiva, a quell’acqua nemica e non più sorella e amante.

Noi siamo qui, a masticare il lentisco che fugge, a guardare il flagello del mirto e della chessa e delle sughere che si accovacciano al maestrale. Non avevano mai visto tanta acqua quei terreni spaccati, gonfi di rughe e di speranza. Duri come la vita, come il rumore della terra. E’ arrivata quest’acqua a pianificare il futuro e non ne avevamo bisogno. Ma lei, acqua impura e irritante ci ricorda qualcosa e non vogliamo capire: ci dice di guardare con gli occhi del cisto, delle pietre e del “nibbaru”. Ci dice di controllare i solchi della vita e di non costruire sugli argini dove lei è padrona da sempre. Ci dice di non coprire i letti dei fiumi e di non asfaltare la vita. Questo ci dice quell’acqua che lentamente ci assale.

Questo racconta ai nostri sguardi perduti, ai nostri occhi senza più lacrime, a questa terribile litania, a questo dover contare sempre i morti per poter parlare, per poter dire: “non è l’acqua la nostra nemica ma è sono le nostre scellerate scelte a costruire bare”. Acqua che lava questa mia terra e nessuno sa ascoltare il rumore silente degli anziani abitanti. L’acqua è la vita e non siamo riusciti ad incanalarla. Non siamo riusciti a farla scorrere nelle vene delle opportunità. Adesso non è il tempo delle parole.

Adesso è il tempo delle mute voci, delle parole non dette, dei pensieri non scritti. Ma quando questi morti riabbracceranno la terra, la loro terra, quando questi morti che sono donne, uomini, bambini, che sono sardi, cominceranno ad essere dimenticati, come quelli di Capoterra e quelli negli incendi e nelle strade mal costruite, cominceremo a chiederci cosa significa tutto questo, quanti morti ci servono ancora per comprendere la natura delle cose, per capire la saggezza dei nostri avi, per giungere alla terra.

Dobbiamo amarla la nostra terra. Dobbiamo crederci. E’ questo il nostro punto di partenza: amare la terra e rispettarla. Quando le lacrime non segheranno i volti e non faranno più male alla pelle ma soltanto al cuore dovremmo provare a guardarci intorno e comprendere una cosa, una cosa soltanto: questa terra è la nostra terra e dobbiamo ritornarci a sedervi accanto, ad accarezzarla, a ripotare le lancette della “modernità” un po’ più indietro, dovremmo provare a riscattare l’orgoglio e la dignità. Non basta dire “sono sardo”. Bisogna anche dimostralo. E le parole, a volte, non costruiscono vite, ma le raccontano soltanto.

Oggi quest’acqua ha gonfiato i nostri cuori e li ha lavati, derisi e feriti. Domani quell’acqua dovrà ritornare ad essere vita. Per la Sardegna. Per i sardi e per il futuro dei nostri figli.

One Comment

  1. antonello melis

    non ci sono lacrime e parole. un pezzo travolgente come l’acqua maledetta. bello e duro. ma vero. complimenti

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